L’uccellino glielo aveva detto. E così è, in effetti, stato. Nicolás Maduro Moro ha vinto, ieri notte, la corsa presidenziale venezuelana. O meglio: ha chiuso infine da vincitore – lui che dell’uccellino annunciatore era l’erede designato, nonché “il figlio e l’apostolo” – quella che, fin dall’inizio, era stata concepita, non tanto come una contesa elettorale, quanto come una vera e propria “resurrezione”.
Più ancora: come l’ultimo, glorioso atto del processo di beatificazione di San Hugo Chávez Frías, il “Cristo redentore dei poveri” (Maduro dixit) che per il suo popolo era morto che nel suo popolo era destinato a rinascere – ed a vivere ‘in eterno’ – grazie all’ ‘aplastante’, schiacciante trionfo del suo delfino contro il ‘candidato della borghesia’. Anzi: grazie alla ‘pela historica’, alla storica bastonatura, che Maduro avrebbe immancabilmente inflitto, al termine della più breve campagna elettorale della storia Venezuelana (breve e tutta vissuta in uno stato di mistica esaltazione per la scomparsa del grande leader), al rivale Henrique Capriles Radonski, il ‘caprichito burguesito’ già battuto con poco meno di 11 punti percentuali di vantaggio, dal medesimo Hugo Chávez, lo scorso 7 di ottobre.
Quello che l’uccellino non aveva previsto – o che forse è stato da Maduro frainteso in una troppo frettolosa traduzione dei suoi cinguettii – è che il vincitore arrivasse, come si usa dire, pressoché nudo (o, date le premesse, spennato) alla meta. Più precisamente: che la sua vittoria sarebbe stata, non per travolgente distacco, ma al termine d’una contesissima (e ancora non del tutto conclusa) volata. Il 50,66 per cento, contro il 49,07 di Capriles, quando era stato scrutinato il 99,2 per cento dei voti. Non più di 250.000 suffragi di differenza, meno del 2 per cento. Un successo, a conti fatti (o quasi fatti), tanto striminzito da dare una nitida credibilità e considerevole peso alla frase – “signor presidente, oggi il vero sconfitto è lei” – con la quale Henrique Capriles ha ieri notte accolto il risultato a tarda notte annunciato, con cupi accenti, da Tibisay Lucena, presidentessa del CNE (un risultato che, peraltro, Capriles ancora non ha riconosciuto, avendo chiesto al Consiglio elettorale nazionale un riesame completo, voto per voto, di tutti gli atti elettorali).
Come è giunto Nicolás Maduro – forte dell’ ‘ungitura’ del líder supremo scomparso e dell’appoggio di tutti gli apparati di Stato – a questa ‘catastrofica’ vittoria? Rispondere non è facile. Ma la prima (e più semplice) parola che balza alla mente è ‘overdose’. Il culto della personalità di Hugo Chávez è sempre stato – come ogni culto della personalità – un potente narcotico, una liturgia (intrinsecamente grottesca, ma indiscutibilmente divenuta parte del senso comune d’una parte grande della popolazione venezuelana, specie la più povera) dietro il quale si nascondevano miserie ed inganni. Praticato da Chávez in vita, questo culto s’alimentava del carisma e delle straordinarie capacità di comunicazione dell’uomo della Provvidenza. Senza Chávez – ovvero, diventato il culto d’un morto, o d’un santo – questo narcotico ha dovuto esponenzialmente aumentare, in un parossistico clima di para-religioso fervore, le proprie dosi. Fino a giungere all’episodio dell’uccellino, al Chávez-colibrì giunto ad annunciare il prossimo trionfo al suo figlio-apostolo raccolto in solitaria preghiera in una piccola cappella di Barinas. Ovvero: fino a toccare il confine oltre il quale la sfolgorante glorificazione del morto ha infine rivelato il suo lato oscuro, la sua comica essenza, la lunga menzogna (quella sulla malattia e sulla morte di Chávez) della quale negli ultimi mesi, in un rossiniano crescendo di sfacciataggine, quella glorificazione era andata nutrendosi.
Maduro aveva – se davvero voleva esser considerato un vincitore – l’obbligo di replicare, quantomeno, i termini dell’ultima vittoria elettorale di Chávez (55,7 per cento contro 44,3 per cento). Ed il suo dichiarato obiettivo era, anzi, quello di raggiungere quei 10 milioni di voti (oltre il 64 per cento con gli indici di partecipazione registrati ieri) che, lo scorso 7 ottobre, lo stesso ‘comandante’ aveva puntato e mancato. Entrambi gli obiettivi sono rimasti lontanissimi. Ed ora Maduro ha di fronte a sé una serie di compiti assai difficili.
Il primo – giusto per chiudere l’episodio dell’uccellino – è quello di restituire a Hugo Chávez, che sempre aveva considerato se stesso un aquila, la grandeur ornitologica perduta. E poi – cosa ben più seria ed importante – quella di gestire, indebolito da questa vittoria stiracchiata, la vera eredità del grande leader scomparso. Il quale, a lui ed ai venezuelani tutti (Capriles incluso), ha in effetti lasciato, oltre al pesante fardello del culto di se medesimo ed istituzioni debolissime, soprattutto conti da pagare, la realtà d’un modello assistenzial-autoritario – o, se si preferisce, una ingestibile replica in chiave petrolifera del vecchio caudillismo latinoamericano – ormai aritmeticamente giunto al suo capolinea. Vale a dire: il chavismo, non solo senza Chávez, ma anche senza il libretto degli assegni con il quale, grazie a un boom petrolifero senza recedenti, Chávez aveva, in passato, costruito il proprio mito.
Una storia affascinante ed appena cominciata. Una storia tutta da raccontare…