Cultura

Dalla Costituzione alla prostituzione: il piano dei Saggi per il patrimonio

Tra le perle contenute nell’agenda economica prodotta dal collegio di cervelli nominati da Napolitano c’è anche questa ideona: «Allo scopo di moltiplicare i luoghi in cui rendere accessibile il patrimonio culturale disponibile, si potrebbero sperimentare forme di prestito oneroso ai privati … di parte delle opere attualmente chiuse nei magazzini, così da finanziare con il ricavato attività e gestione dei musei esistenti».

Non è una novità: la stessa proposta era contenuta in un disegno di legge presentato il 22 giugno 2010 da un certo Domenico Scilipoti. In compenso è una genialata perfettamente bipartisan, visto che era contenuta anche nel programma di Laura Puppato per le Primarie poi vinte da Bersani: «Altra proposta dissacrante è l’utilizzazione intelligente delle opere d’arte e dei reperti archeologici custoditi nei magazzini dei musei e che non vengono esposti per mancanza di spazio. Si potrebbe affidarli a fronte di adeguato compenso, in locazione ad organizzazioni private che ne curerebbero l’esibizione al pubblico, oppure con apposita convenzione affidarli a enti, istituzioni, fonti termali e alberghi affinché ne curino l’esposizione».

Chi avanza proposte del genere dimostra di non avere neanche la più pallida idea di che cosa sia il nostro patrimonio. Che non ha bisogno di «moltiplicare i luoghi» di fruizione (che andrebbero semmai razionalizzati, e forse diminuiti), perché è già iper capillarmente diffuso sul territorio. Sviati dal modello americano, la nostra percezione è invece museo-centrica: pensiamo di salvare il patrimonio trasformando i grandi musei in fondazioni, e ci preoccupiamo per le opere conservate nei depositi. Ma la percentuale di arte musealizzata è minima, ed è quella più al sicuro. E non c’è nulla di scandaloso nel fatto che i musei abbiano depositi: che non sono magazzini, e tantomeno scantinati umidi, o soffitte polverose, ma sono polmoni attraverso cui il percorso espositivo del museo ‘respira’.

Ma andiamo al cuore del problema: è sensato mettere a reddito il patrimonio, per esempio noleggiando le opere d’arte pubbliche ai privati? Io credo di no.

Nel 1948 la Costituzione ha spaccato in due la storia dell’arte italiana, assegnando al patrimonio storico e artistico della Nazione una missione nuova al servizio del nuovo sovrano, il popolo. La storia dell’arte è in grande parte la storia dell’autorappresentazione delle classe dominanti, e per un lungo tratto i suoi monumenti sono stati costruiti con denaro sottratto all’interesse comune. Ma la Costituzione ha redento questa storia: le ha dato un senso di lettura radicalmente nuovo. Il patrimonio artistico è divenuto un luogo dei diritti della persona, una leva di costruzione dell’eguaglianza, un mezzo per includere coloro che erano sempre stati sottomessi ed espropriati.

Ma se noi torniamo a rimettere quel patrimonio nelle mani dei ricchi, se lo privatizziamo, se lo riduciamo ad un’attrezzeria scenica da noleggiare a pagamento, ebbene prendiamo il progetto della Costituzione e lo buttiamo nel cesso. Del resto lo facciamo già: in questi giorni le piazze e i monumenti di Firenze sono, per esempio, privatizzati da un miliardario indiano che ha noleggiato (per un tozzo di pane) mezza città come una location di stralusso in cui organizzare il proprio matrimonio. E il Comune è felicissimo: è l’occasione perfetta per una città il cui unico progetto sul futuro è lo sciacallaggio del passato. Il modello è la Venezia di Cacciari & c., insomma: la conversione della città in un luna park a gettone.

Allora cosa fare, dove trovare i soldi? Partiamo dai numeri. L’Italia spende in cultura l’1,1% del Pil, la metà della media europea (2,2%). Per l’anno in corso saranno tolti altri sessanta milioni alla tutela e alla valorizzazione dei beni storici e artistici, che già cadono a pezzi. L’intero bilancio del Ministero per i Beni culturali (già dimezzato da Bondi e Berlusconi) sarà ulteriormente tagliato, arrivando a un miliardo e 589 milioni di euro. Il patrimonio recentemente sequestrato ad un singolo imprenditore dell’eolico accusato (tra l’altro) di aver devastato il paesaggio italiano è pari a un miliardo e 300 milioni: cioè, noi difendiamo il paesaggio e il patrimonio di tutti con gli stessi soldi messi in campo da uno solo tra le sue migliaia di nemici!

Dove trovarli, dunque, questi soldi? L’Italia ha l’evasione fiscale più grande del mondo: peggio di noi solo la Turchia e il Messico. Con il 2,5 % dell’evasione annuale italiana (che ammonta a 150 miliardi di euro) il patrimonio si potrebbe mantenere sontuosamente: senza regalarlo a speculatori privati, senza ricorrere alla beneficenza, senza ridurci ad avidi usufruttuari del passato.

Ma è molto più facile trattare le opere d’arte come orsi ballerini che si aggirano nei cocktail col piattino delle offerte tra le zampe: e non importa se questo significa umiliarle fino a privarle di quei poteri di umanizzazione, liberazione morale ed educazione intellettuale che le rendono presenze uniche ed insostituibili nella nostra vita spirituale.

Un suggerimento per i saggi del Quirinale: ora che il presidente Napolitano va in pensione, perché non noleggiarlo a pagamento per impreziosire le serate dei vip e ripianare i conti dello Stato?