Può il primo partito italiano non essere in grado di esprimere una candidatura coerente con le aspettative del Paese e del suo stesso elettorato?

Sembrerebbe proprio di sì, a giudicare da quanto sta accadendo nel Pd. Che, ad oggi, è stato in grado di tirare fuori nomi impresentabili. Come, ad esempio, quelli della Finocchiaro e di Marini. Non tanto perché la Finocchiaro si è fatta beccare con la scorta all’Ikea. O perché Marini è stato clamorosamente trombato nella competizione elettorale. Ma soprattutto per il fatto che sia Marini che la Finocchiaro sono espressione di uno stile, di un modo di interpretare la politica che il Paese vuole lasciarsi alle spalle. Definitivamente.

Non è questione di competenza. Quella c’è. Anzi, ce n’è fin troppa. È il tipo di competenza che i due hanno maturato che avrebbe dovuto indurre Bersani a mettere da parte le relative candidature. La Finocchiaro e Marini è infatti una vita che lavorano dietro le quinte. Gestendo a piene mani pezzi di potere, trattando per spartire, distribuendo, anche a loro stessi, poltrone e sottopoltrone. Nell’ombra. Sempre e comunque.

È questo lo stile che viene giudicato non più tollerabile da sempre più larghe fette di elettori/cittadini italiani. E chi ne ha interpretato ai massimi livelli e con grande perizia le sue diverse declinazioni, non pare rappresenti il genere di candidatura che si aspetta il Paese. E che può fare bene all’Italia, ma anche alla sua malconcia politica. Restituendole un po’ di dignità.

Viene da chiedersi se di ciò Bersani ed i suoi consiglieri siano consapevoli. O se, invece, vivano in una realtà parallela. Quella in cui chi perde, ma è fido compagno di strada, come Ambrosoli, viene addirittura premiato e scelto come grande elettore. E dove chi ha sempre vinto (primarie a parte), come Renzi, rimane a casa.

Questo è il mondo nel quale i maggiorenti del Pd sembrano ingabbiati. Incapaci di cogliere il sentimento nemmeno tanto profondo che anima gli italiani. Non in grado di fiutare l’aria che tira soprattutto nel proprio elettorato. È l’aria di chi se ne infischia e ne ha piene le tasche della strategia, peraltro rivelatasi fallimentare nell’ultimo ventennio. E di chi vuole evitare, per il bene del Paese innanzitutto, che nella designazione per un ruolo dalla simbologia forte, prevalga la solita e logora mediazione al ribasso. Quella che ci ha condotto sull’orlo del baratro, tanto per chiarire.

Il popolo di sinistra, attuale e potenziale – e non solo esso – si aspetta che il primo partito italiano faccia un nome. Uno secco, che stupisca e spiazzi. Che risponda ad un uomo o ad una donna molto meno esperti di “giochini” rispetto a Finocchiaro e Marini. Ma fortemente in sintonia con i bisogni di questo povero Paese, sempre più sbiadito e fiaccato, oltreché sbandato. Che deve essere ricostruito.

Un Paese che può ricominciare a incamminarsi su un percorso di ritrovata fiducia nel futuro anche grazie ad un Presidente della Repubblica di cambiamento. Di rottura, nel senso più ri-costruttivo del termine.

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