“Io al Quirinale? No, grazie. O forse sì. Ma non prima del 2006…”. Risponde così, Francesco Cossiga, agli amici della sinistra Dc che, allo scadere del settennato di Pertini, vanno in processione a casa sua per sondare la sua disponibilità a candidarsi. Possibilista, ma pure consapevole dell’età media dei precedenti inquilini del Quirinale: mai sotto i 60 anni. E lui, nel 1985, non ne ha ancora compiuti 57. “Largo ai vecchi”, sembra suggerire Cossiga, tanto più che nella corsa al Colle i favoriti sono Andreotti, Forlani e il solito Fanfani. E lui, l’ex ministro degli Interni dimissionario dopo il caso Moro, l’ex premier più amato da Pertini, se ne sta comodo comodo sulla poltrona di presidente del Senato. “Sette anni là dentro, in quella prigione dorata, lassù sul Colle…”, continua a ripetere a Ciriaco De Mita, suo segretario e (allora) amico. In quel giugno del 1985 una sola cosa è certa: sul Colle salirà un democristiano, per la regola dell’alternanza. Craxi non farà storie, per non perdere Palazzo Chigi. E i comunisti di Alessandro Natta, appena bastonati nel referendum sul punto unico di contingenza, hanno una gran voglia di rientrare in gioco. Il problema semmai è la Dc, dove al solito scalpitano i cavalli di razza.
De Mita, padre-padrone del partito, fa sapere che “l’elezione del capo dello Stato è cosa diversa dalla maggioranza e quindi dall’alleanza di governo”. Non gli basta vincere. Vuole stravincere. Ma possibilmente, per la prima volta nella storia repubblicana dai tempi di De Nicola, con un candidato concordato con gli altri partiti. Infatti incontra con largo anticipo Natta, e gli propone subito Andreotti. Risposta: “Non possiamo votarlo”. Nemmeno l’altro big Dc, Forlani, piace a tutti. Si decide allora che ogni partito proponga una rosa di nomi. Il Pci gradirebbe due intellettuali cattolici democratici, Giuseppe Lazzati e Leopoldo Elia. I partiti laici vorrebbero Paolo Baffi, ex governatore di Bankitalia e figura cristallina. Cossiga – racconterà De Mita a Concita De Gregorio di Repubblica – viene fuori quasi per caso, perché compare in diverse “rose”. Ha collaborato col Pci nel governo Andreotti di solidarietà nazionale, è un giurista di chiara fama, un politico di specchiata moralità, per giunta lontano dai giochi di corrente (pur facendo riferimento alla sinistra Dc). E piuttosto docile – così almeno s’illude Ciriaco – agli ordini di scuderia. “Il nostro agente al Quirinale”, dirà anni dopo Cossiga, tracciando un beffardo identikit del presidente perfetto agli occhi di De Mita.
La “benedizione” del nettapipe
Natta, che già l’ha votato alla presidenza del Senato, ci sta subito, nella speranza di fare un dispetto a Craxi e ricominciare ad amoreggiare con la sinistra Dc: lo scontro del 1980, quando i comunisti votarono la sua messa in stato di accusa per il caso Donat Cattin, è già dimenticato. E poi Cossiga è pur sempre il cugino di terzo grado di Berlinguer. Il Garofano, d’altronde, fatica a contrapporgli un suo uomo: l’unico sulla piazza è Pertini, cui non dispiacerebbe affatto la riconferma. Ma, a parte le stoccate che riserva di continuo a Via del Corso, è troppo vecchio con i suoi 88 anni per essere rieleggibile. E dopo di lui un altro socialista non passerebbe mai. Cossiga, insomma, va bene a tutti. O quasi, visto che nella Dc incontra le resistenze più forti. Ma Andreotti lo appoggia: “Fosse vivo De Gasperi, approverebbe”. E convince gli altri. Ora si tratta di convincere lui. De Mita ci riesce con una frase un po’ strana: “Se non te la senti di tirare avanti per sette anni, puoi mollare dopo quattro o cinque. Pensa che bel gesto: un precedente che potrebbe preludere alla riforma del settennato presidenziale”. Si fa anche promettere che manterrà al Quirinale il segretario generale Maccanico, irpino come lui. E che nominerà tre senatori a vita – Elia, Malagodi e Baffi – per accontentare il Pci e i laici.
Cossiga s’impegna (poi non nominerà nessuno dei tre senatori a vita) e informa in anteprima i suoi due figli: “Ci sono molte probabilità che tra qualche giorno vostro padre diventi presidente della Repubblica”. Basterà qualche ora. Quando, alle 16 del 25 giugno, l’Assemblea plenaria di Camera e Senato si riunisce per la prima votazione, i giochi sono già fatti. Compresa la benedizione di Pertini: “Cossiga è un uomo onesto – ha detto il giorno prima – e ha sofferto molte amarezze. È diventato bianco e curvo. E poi una volta mi ha regalato un nettapipe d’oro”. Il candidato unico ha già in tasca i voti di Dc, Pci, Psi e laici. Mancano all’appello solo missini, demoproletari e radicali, che tuonano all’unisono contro l’inciucio maggioranza-opposizione su uno dei simboli del compromesso storico: alla fine voteranno scheda bianca. L’elezione è una pura formalità: per la prima volta il Presidente è eletto al primo colpo, con gran sorpresa dell’amministrazione di Montecitorio che, memore dei sedici scrutini della volta precedente, hanno ammassato quintali di derrate alimentari nei depositi dei ristoranti della Camera, per sfamare per giorni i mille e più grandi elettori. Un’ora e 52 minuti appena, dura lo scrutinio. Poi, quando la presidente della Camera Nilde Jotti legge per la 566ª volta il nome di Cossiga, il quorum è raggiunto e scatta l’applauso. Totale: 752 voti su 977, con 141 schede bianche. Nessun voto per il commendatore e pensionato Pietro Melone da Casagiove, Caserta, che giorni prima ha annunciato la sua candidatura “senza illusioni, ma per sfizio”.
Il discorso d’insediamento di Cossiga non ha nulla di rivoluzionario, ma si fa ascoltare. Un po’ emozionato, con un’inflessione sarda ancor più spiccata del solito, le doppie consonanti quando non sono previste e viceversa, attacca: “Sono il primo presidente della Repubblica che non appartiene alla generazione dei padri della patria. Ne sono umilmente consapevole… Voglio essere il presidente della gente comune che lavora nelle fabbriche, che studia, che scrive, che patisce la disoccupazione… Sono uno di loro”. E mentre ancora parla, alcuni camerieri trafelati portano via 25 prosciuttoni intonsi. “È il mio capolavoro”, gongola De Mita. Se ne pentirà. I partiti che più hanno osteggiato l’ascesa di Cossiga, dal Psi al Msi, diventeranno con gli anni i suoi più accaniti tifosi; quelli che l’hanno sponsorizzato, dalla Dc al Pci, i suoi più acerrimi nemici. Per non parlare dei giornali: Repubblica di Scalfari, che ingaggerà con lui epici duelli negli anni delle esternazioni, saluta la sua elezione con squilli di tromba. L’entusiasmo è tale da indurre un malcapitato redattore a intervistare, in esclusiva mondiale, i genitori del neopresidente, festanti nella casa di Sassari. Peccato che siano morti da una decina d’anni.
Strana biografia, quella di Cossiga. Classe 1928 e famiglia della Sassari bene non proprio cattolica: il nonno Francesco Maria, fratello del nonno di Berlinguer, era un pezzo grosso della massoneria; suo padre, un seguace di Emilio Lussu, leader del Partito sardo d’azione; sua madre cattolica sì, ma finita nei guai per aver lanciato volantini che chiedevano la liberazione di alcuni anarchici durante una visita del re Vittorio Emanuele. Francesco prende molto da lei. Laureato a 20 anni, docente di Diritto costituzionale a 24, s’iscrive giovanissimo alla Fuci, è un dossettiano sfegatato e nel 1956 fa la guerra al conterraneo Antonio Segni, che poi se lo fa amico portandolo in Parlamento nel ’58. Sposato con Peppa Sigurani, che gli darà due figli e non si lascerà mai fotografare, adora l’insegnamento. Ma quando Segni si ammala e lascia anzitempo il Quirinale, Moro lo vuole con sé come sottosegretario alla Difesa (1966): tocca a lui gestire l’operazione Gladio e lardellare di omissis il rapporto parlamentare sul Piano Solo. Nel ’74 ministro della Riforma burocratica, dal ’76 al ’78 ministro dell’Interno nei governi Andreotti della solidarietà nazionale. Per l’ultrasinistra è “Kossiga” (con la K e la doppia S runica, alla nazista). Per Pannella, il responsabile morale della morte di Giorgiana Masi durante una manifestazione di piazza.
Moro, le ombre e il rimorso
I 55 giorni del caso Moro lo invecchiano di vent’anni: l’ansia per l’amico ostaggio, il dolore per le sue ingenerose lettere dalla prigione, il dovere della fermezza, il rimorso di non aver fatto abbastanza per salvarlo, le polemiche per le pessime indagini della “sua” polizia e per i piduisti nei suoi comitati di crisi. E, subito dopo, le dimissioni dal Viminale. Un anno da eremita, il dolore somatizzato in vitiligine che gli sbianca i capelli e gli chiazza la pelle à pois (“Mi svegliavo ogni notte di soprassalto, col pensiero fisso che Moro l’avevo ucciso io”). Poi il ritorno sulla scena, presidente del Consiglio dal 1979 all’80. Lo scandalo Donat Cattin (Cossiga accusato di aver agevolato la fuga del terrorista Marco, avvertendo il padre Carlo che il figlio era ricercato) e i franchi tiratori che impallinano il suo governo. Per sempre, pare. Invece, nel 1983, De Mita arriva alla segreteria e lo fa eleggere presidente del Senato. Poi, due anni dopo, presidente della Repubblica. I suoi primi quattro anni sul Colle sono di una noia mortale: parla poco, non esterna, non fa notizia. I vignettisti scherzano sul “sardomuto”. L’inserto satirico dell’Unità, “Tango”, lo ritrae come un omino un po’ stralunato che fa capolino da dietro una persiana (“Mi hanno eletto presidente e non mi hanno detto che cosa devo fare”).
Lui passa le giornate a tagliar nastri, a leggere e studiare i suoi autori preferiti (Tommaso Moro, Henry Newman, Pascal, Bernanos, Cartesio, i maestri del giallo e dello spionaggio), a praticare le sue bizzarre collezioni (soldatini, cose militari e – insinua qualcuno – dossier) e la sua passione di radioamatore (nome in codice: Andy Capp). E, a parte qualche furiosa litigata con il Csm (che secondo lui si allarga un po’ troppo), tutto fila liscio fino al ’90. Poi, un bel giorno, complice il crollo del muro di Berlino che chiude la Guerra fredda e scioglie i due blocchi contrapposti in cui è diviso il mondo da Yalta in poi, il risveglio: “Voglio togliermi alcuni sassolini dalle scarpe”. Apriti cielo. Sarà la ciclotimia, che gli fa alternare momenti di euforia e di depressione. Saranno le trame degli “amici” dc che prendono forma. Sta di fatto che Cossiga comincia a tuonare. Anzi, dice lui stesso, a “picconare”.
Il sismografo di Tangentopoli
Ancora contro il Csm, che vuole censurare i giudici massoni, e poi vuole difendere i giudici attaccati per la prima volta da Craxi (per impedirlo, l’uomo del Colle minaccia di mandare i carabinieri a Palazzo dei Marescialli). Poi contro il Tg1, che intervista un falso agente della Cia con le prime allusioni a Gladio (la rete anticomunista, nome in codice “Stay Behind”, varata in gran segreto in alcuni paesi Nato fin dagli anni 60 in vista di una temuta invasione sovietica). Quella Gladio che Andreotti ha messo in mano al giudice veneziano Felice Casson, spalancandogli gli archivi dei servizi segreti a Forte Braschi, con sospetta generosità. Sospetta almeno per Cossiga, che intravede una manovra del Divo per farlo dimettere anzitempo e prendere il suo posto. Da allora è una grandinata continua di esternazioni e interviste (soprattutto al prediletto Paolo Guzzanti) da ogni capo del mondo, ora furibonde ora beffarde, ma sempre destabilizzanti, contro tutto e contro tutti (tranne i socialisti): Andreotti, Craxi, Forlani, Pomicino, Gava, l’esercito, tutta la Dc, la Lega, Mancino, Occhetto (“zombie coi baffi”), Violante (“piccolo Wishinsky”), i “giudici ragazzini” antimafia, il pm Cordova, “la nota lobby” Repubblica-Espresso–Scalfari–De Benedetti, Luca Orlando e padre Pintacuda, Rodotà (“se lui è di sinistra, io sono un brigatista rosso”), il Vaticano, persino Vespa e Baudo.
Difende Gladio a spada tratta, esalta Edgardo Sogno, dice che nella P2 c’erano anche veri patrioti, vuole i pm subordinati al governo, è ossessionato dai complotti (quelli veri, ma anche quelli inventati) ai suoi danni. La Dc scarica il Picconatore (qualcuno invoca financo la perizia psichiatrica), il Pci e Pannella chiedono l’impeachement. Il fronte nemico s’ingrossa e gli getta tra i piedi ogni sorta di accuse, esagerate come le sue esternazioni: matto, golpista, fascista, depistatore del caso Solo e delle stragi di Bologna e di Ustica, criptopiduista e chi più ne ha più ne metta. In realtà, con i suoi sbalzi d’umore, Cossiga è diventato il sismografo impazzito di una classe politica marcia dalle fondamenta, quasi che presentisse lo tsunami che sta per travolgerla: Tangentopoli. Lupo solitario che ulula alla luna circondato da ladri e da sordi, Cossiga se ne va il 25 aprile 1992, con un discorso commosso e commovente alla Nazione. Due mesi prima della scadenza del mandato, due mesi dopo l’arresto di Mario Chiesa, un mese prima della strage di Capaci. Fra le macerie della Prima Repubblica.
da Il Fatto Quotidiano del 16 aprile 2013