L'analisi del quotidiano economico di Londra basata sui dati delle riserve di BP, Shell, Chevron ed Exxon e sul loro tasso di sostituzione. Dibattito aperto: secondo altri osservatori accadrà l'esatto opposto in virtù dell’avvenuto raggiungimento della capacità produttiva massima
La produzione e la disponibilità di petrolio sul mercato mondiale dovrebbero aumentare nei prossimi anni grazie all’iniziativa delle principali major del settore. Lo ha sostenuto in questi giorni il Financial Times, elaborando i dati sulle riserve dei colossi petroliferi BP, Shell, Chevron ed Exxon. Una tesi, quella espressa dal quotidiano, che riaccende il dibattito sul futuro dell’oro nero contribuendo, va da sé, ad alimentare una discussione che da qualche tempo ha visto contrapporsi posizioni diametralmente opposte tra il fronte allarmista e il partito degli ottimisti guidato idealmente dall’Agenzia Internazionale dell’Energia.
Ma andiamo con ordine. La chiave di tutto, sostiene il FT, sarebbe costituita da un indicatore fondamentale noto come “tasso di sostituzione delle riserve” (reserve-replacement ratio). Il dato, utilizzato per effettuare previsioni, misura la quantità di riserve accumulate da una compagnia petrolifera in relazione alla sua produzione e la esprime in un rapporto percentuale. Un valore inferiore al 100% lascia intendere una probabile contrazione della produzione in futuro; un valore superiore, al contrario, evidenzia un probabile aumento dell’output. Ebbene, nel corso del 2012 le grandi compagnie hanno registrato tassi di sostituzione molto variabili, dal 77% di BP al 115% della Exxon, ma se osservate nel medio-lungo periodo finiscono tutte quante per evidenziare un palese surplus delle riserve. Misurato sugli ultimi tre anni, il reserve-replacement ratio della Shell si colloca al 112%, lo stesso livello raggiunto dalla Chevron negli ultimi cinque. Su base decennale, nonostante il basso livello registrato nel 2012, BP mantiene un avanzo pari al 109% mentre, nello stesso periodo, il tasso raggiunto da Exxon tocca addirittura quota 121%.
L’aspetto centrale resterebbe legato dunque all’orizzonte del tempo. Siccome le congiunture momentanee possono influenzare radicalmente le operazioni di accumulazione delle riserve o di estrazione, l’idea più diffusa è che un indicatore come il tasso di sostituzione vada necessariamente misurato su un orizzonte temporale più lungo per poter ponderare meglio i fattori momentanei. Per questo motivo, sembra dirci il FT, i dati poco confortanti espressi in alcuni casi dal reserve replacement ratio nel corso di un anno non possono necessariamente indurre al pessimismo. Soprattutto nel caso in cui a fare da contraltare siano cifre di segno opposto calcolate su periodi più lunghi.
Il giudizio positivo espresso dal quotidiano della City richiama alla memoria un recente studio a cura dell’ex dirigente Eni Leonardo Maugeri, oggi docente di Geopolitica dell’Energia presso il Belfer Center for Science and International Affairs di Harvard. La sua ipotesi, avanzata nel giugno scorso, prevede un maxi aumento della produzione petrolifera da qui al 2020, con una crescita della capacità produttiva fino a quota 110 milioni di barili al giorno contro gli attuali 93. A conti fatti si tratterebbe del più grande incremento produttivo dal 1980. L’effetto più evidente, sostiene lo studio, sarebbe quindi costituito da un inevitabile abbassamento del prezzo del barile per i prossimi anni.
L’ottimismo di alcune analisi è però apertamente criticato da altri osservatori, a cominciare dai sostenitori dell’ipotesi dell’avvenuto raggiungimento della capacità produttiva massima nel mercato dell’oro nero (il cosiddetto picco del petrolio). Uno scenario, quest’ultimo, che implicherebbe per i prossimi decenni un trend ribassista per la produzione e una tendenza rialzista per i prezzi. Nel 2010, i ricercatori del Future Analysis department del Bundeswehr Transformation Center, un think tank dell’esercito tedesco, avevano sostenuto la tesi del picco prefigurando uno scenario particolarmente negativo soprattutto a partire dal 2025. A suscitare perplessità, oggi, sono alcuni dati quantomeno critici tanto sul fronte della quantità prodotta quanto su quello dei costi finali. Alla fine del 1998 il prezzo del barile viaggiava attorno agli 11 dollari; oggi stiamo tra i 90 e i 100 (con un picco di 147 nel luglio 2008); oggi stiamo tra i 90 e i 100.
A complicare il tutto ci si mette quindi la variabile shale, l’insieme delle risorse (gas e petrolio) estratte con tecniche non convenzionali e alla base dei sogni di espansione del settore. Nello scorso mese di novembre, l’Agenzia Internazionale dell’Energia (International Energy Agency – IEA) ha ipotizzato il sorpasso Usa ai danni dell’Arabia Saudita da qui al 2020 con la conseguente trasformazione degli Stati Uniti nel primo produttore mondiale in meno di un decennio. Anche qui, tuttavia, non mancano le questioni irrisolte. La prima, come noto, è relativa alla disponibilità effettiva delle riserve che si basa su dati ancora incerti. Il secondo aspetto, invece, ruota proprio attorno ai costi che, con le attuali tecniche di estrazione di petrolio (e gas) non convenzionale, risulterebbero ancora particolarmente elevati. Con una inevitabile ricaduta al rialzo sul prezzo finale.