Io dico sempre che siamo una generazione fortunata, perché viviamo in un mondo ipercivilizzato (ma vivaddio sulla china di una crisi irreversibile dallo stesso creata), e nel contempo sappiamo che esistono tuttora popoli che vivono come lo stesso uomo oggi ipercivilizzato viveva migliaia di anni fa. Sappiamo della loro esistenza, ma non vorremmo mai conoscerli. Loro devono vivere il loro mondo, la loro vita, senza che noi ci ingeriamo e magari li infettiamo, in ogni senso, con i nostri virus ma anche con i nostri costumi.

Ho pensato a questo quando qualche tempo fa parlavo con l’amico Guido Della Casa, e lui mi ha ricordato che quando venne lo tsunami, buona parte degli indigeni delle isole Andamane si salvarono perché non avevano abitazioni sulla costa e comunque quando la tempesta si riversò sulle isole, loro si rifugiarono sulle alture intuendone con anticipo l’arrivo. Quando poi un elicottero andò a verificare se erano morti, loro gli scagliarono contro le loro frecce perché andasse via. Del resto, è cosa nota che se lo tsunami fece tante vittime, fu anche perché le coste erano state deforestate, soprattutto di mangrovie, e riempite di abitazioni.

Ma non voglio con questo dire che dobbiamo imparare dagli indigeni, anche se sarebbe bene essere così umili.

Il mio discorso è un altro e l’ho già accennato prima: perché non lasciargli vivere la loro vita? E invece no: bracconieri, turisti, missionari, speculatori si avventurano anche qui tra gli ultimi indigeni rimasti. Perché depredare? Perché curiosare? Perché convertire? Perché intaccare? Non possiamo essere così discreti da accettare la loro diversità e lasciarli vivere in pace? Con tutti i posti che ci sono, perché andare ad infettare gli ultimi uomini che vivono ancora in pace con la natura?

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