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Strage Boston, ceceni-americani con il mito di Islam e dollari

Due fratelli alla ricerca impossibile di un’identità perduta. Lo si capisce dalle tantissime e inequivocabili tracce che Tamerlan e Dzhokhar Tsarnaev hanno lasciato in questi anni su Internet, nei social network, nei profili disseminati online. Tentati dal nuovo, dalla mentalità pragmatica di quello che da un decennio era il loro paese d’adozione, gli Usa, ma allo stesso tempo ancorati alle origini, risucchiati da un istinto fondamentalista. Nei loro sogni, “carriera e denaro” convivono con il richiamo dell’islamismo più ottuso. Sradicati in età giovanissima da una realtà tormentata come quella della Cecenia, i fratelli Tsarnaev (insieme alle due sorelle Bella e Ailina) arrivano in America, a Cambridge, da rifugiati nel 2001, dopo essere cresciuti prima nel Kirghizistan, poi nel Kazakhstan. Buoni risultati a scuola, passione per lo sport, aspirazioni professionali non diverse da quelle di tanti giovani statunitensi. Ma sembra che non nascondano mai una certa inquietudine.

Mentre posa per un servizio fotografico nella palestra del Wai Kru Mixed Martial Arts, dove praticava la boxe con qualche ambizione, Tamerlan (il più grande dei due, 26 anni, ucciso l’altra notte a Watertown nel conflitto a fuoco con la polizia) si rivela con tutte le sue insicurezze. “Non ho neanche un amico americano. Non li capisco”, esordisce. Ma poi, oltre al suo sogno di diventare ingegnere, assicura di ambire a vincere abbastanza combattimenti nel pugilato, così da poter essere selezionato per il team olimpico Usa (secondo la Nbc, ha ottenuto la cittadinanza l’11 settembre 2012). “Se la Cecenia non ottiene l’indipendenza – dice – preferirei competere per gli Stati Uniti piuttosto che per la Russia”. Altre immagini lo ritraggono in abiti sportivi ma eleganti (“mi piace vestire europeo”) e davanti alla sua potente Mercedes. Si dichiara fanatico del film Borat, anche se “alcune delle battute sono eccessive”.

Ecco, poi, emergere in pillole le sue convinzioni musulmane. Non gli piaceva togliersi la maglietta perché le ragazze non si facessero “brutte idee”. Aveva smesso di bere e di fumare perché “Dio ha detto: niente alcol”. E ancora: “Non ci sono più valori”. “La gente non si sa controllare”. In sintesi: “Sono molto religioso”. Una fede che riuscì a trasmettere alla sua fidanzata, “metà portoghese e metà italiana”, che si convertì all’Islam. Ma, a quanto riporta il sito spotcrime.com  , nel 2009 venne arrestato per aver aggredito la ragazza, che sarebbe comunque divenuta sua moglie e gli avrebbe dato una figlia. Con tutta evidenza, il suo fanatismo aumenta con il passare del tempo. Su Youtube, diventa seguace del canale “Allah è unico”, e crea anche un profilo proprio raccogliendo una serie di video a sfondo fondamentalista. In Rete, troviamo pure un messaggio lasciato su un forum il 2 novembre 2011. Appena due righe, sotto il titolo “paradiso e inferno”, per dire che “quanto più sappiamo riguardo all’inferno, tanto più vogliamo restare lontani dal peccato e chiedere perdono ad Allah”.

Il tormento interiore dev’essere profondo e, a giudizio dello zio Ruslan Tsarni, ancora sotto choc mentre risponde alle domande delle tv locali dalla sua casa di Montgomery Village, nel Maryland, è stata proprio la nefasta influenza di Tamerlan a provocare un cambio radicale anche nel carattere del fratello Dzhokhar, di sette anni più giovane, fino a stamattina l’uomo più ricercato degli Usa. Influenza favorita anche dalla prossimità fisica, dato che condividevano lo stesso appartamento di Norfolk Street, a Cambridge. In effetti, a sentire le testimonianze di amici e compagni della Ringe and Latin High School (che nel 2011 lo premiò anche con una borsa di studio da 2500 dollari), Dzhokhar aveva fama di ragazzo “tranquillo e gentile”, anche se chiuso e poco socievole. Bagnino nella piscina dell’univerità di Harvard, sportivo appassionato di lotta libera, nel social network russo VKontakte assicurava di pensare solo alla “carriera e al denaro”. “E’ un vero angelo”, lo difende dal Daghestan il padre Anzor, che accusa di un “complotto” le autorità Usa.

Il Fatto Quotidiano, 20 aprile 2013