Il capitale umano è una bussola per Enrico Moretti, professore a Berkeley e autore di "La nuova geografia del lavoro" (Mondadori): "Dove c'è ricerca, c'è ricchezza". L'innovazione? "Trasversale: include finanza, marketing, intrattenimento, industria verde"
Quale fattore disegna, più di altri, la nuova geografia del lavoro?
L’istruzione media di una città. Non è sempre stato così. Il capitale fisico, tra il 1950 e il 1980, ha innescato una crescita in città, come Detroit (luogo simbolo delle attività statunitensi di Marchionnne, ndr), che oggi non hanno i parametri richiesti dal mercato del lavoro. Il capitale umano determina il successo di un’area.
La sua considerazione si basa su un auspicio o uno studio?
Ragiono partendo da una ricerca basata sulla misurazione. I trend che evidenzio sono contemporanei. Non sono delle proiezioni future.
Perché sostiene, nel libro, che l’Iphone è il simbolo della nuova geografia del lavoro?
L’economia globale prevede una produzione divisa in più parti del mondo. In California avviene lo studio ingegneristico che poi viene concretizzato in Asia. La scolarizzazione della Silicon Valley ha determinato il successo attuale dell’area.
Perché Shenzhen, città della Cina meridionale, è un simbolo di quanto sostiene?
Fino al 1975 era una paesino dove vivevano 20mila persona. Oggi è una metropoli che ospita 15 milioni di lavoratori. La maggior parte dei prodotti che consumiamo in Occidente arriva da Shenzhen dove c’è uno dei tre porti più importanti del mondo. Da questa area partono, ogni secondo, dieci container.
L’Asia non è destinata ad avere lo stesso capitale umano che ha oggi la California?
Certo. Arriverà un momento in cui i professionisti cinesi si sposteranno verso il lavoro intellettuale. La produzione fisica che contraddistingue l’area si sposterà verso altre zone: il Vietnam, l’Africa, l’America del Sud, … E’ inevitabile.
La tecnologia non toglie lavoro?
La tecnologia cambia il lavoro. Il suo sviluppo, negli Stati Uniti, è stato positivo. L’automatizzazione, in tre decenni, ha fatto perdere un impiego a 400mila tute blu ogni anno. Nello stesso periodo, però, si sono creati altrettanti posti di lavoro che richiedono al professionista una buona scolarità.
La tecnologia è l’unico settore in grado di far crescere un Paese?
L’innovazione è trasversale. Include la finanza, il marketing, l’intrattenimento e l’industria verde. Il lavoro generato dalla tecnologia è unico e prevede un progetto unico, non replicabile in Cina o in Polonia dove, per qualche anno, non ci sarà la quantità di capitale umano che serve per differenziarsi.
L’implementazione dei servizi non è sufficiente?
I servizi, in tutti i Paesi occidentali, impiegano due terzi dei lavoratori di una nazione. I servizi, però, sono un effetto. Non possono essere considerati causa poiché sono il riflesso di una ricchezza accumulata in altri settori.
Il 10 aprile è scaduto il bando del ministero del Turismo australiano per fare il lavoro più bello del mondo. Questo tipo di iniziative modifica la geografia del lavoro?
Il successo di un Paese dipende anche dai creativi che riesce ad attirare. L’America ha ancora questa capacità. Negli Stati Uniti c’è una cultura aperta e una elasticità legale che non si riscontrano in Europa o in Giappone. L’Europa ha liberalizzato il lavoro ma non operato sulle barriere linguistiche e culturali che esistono tra i Paesi. I lavoratori che possono godere di questa mobilità sono pochissimi. Il Giappone, invece, si basa solo su un capitale autoctono. Per questo motivo è in piena stagnazione economica. L’Australia o il Canada, come gli Stati Uniti, hanno una politica che agevola gli immigrati con una buona istruzione.
L’Italia fa parte dell’attuale mercato del lavoro internazionale?
No. I problemi economici dell’Italia sono riconducibili a questa domanda. Il paese è periferico. Si sono sprecate delle occasioni. In Lombardia, per esempio, c’era un’industria farmaceutica. Questo settore è importante poiché risponde a un mercato popolato da persone sempre più anziane. I laboratori scomparsi in Italia si trovano, oggi, in Svezia. Le imprese italiane non possono evolvere. Fino a quando sono piccole, con meno di 15 impiegati, fanno parte dello stesso mercato fluido che esiste negli Stati Uniti. La crescita, però, comporta una serie di costi diretti e indiretti. Per rimanere piccoli non bisogna investire in innovazione. Questa condizione ha fatto invecchiare il panorama industriale italiano.
I pagamenti della pubblica amministrazione sono una soluzione?
No. Questo è un problema e come tale va risolto. In Italia, però, bisogna lavorare sulle ragioni strutturali che impediscono al paese di crescere. L’Italia e la Germania producono macchine industriali, oggi richieste da Brasile, Cina e India dove si apre una fabbrica al giorno. Il mercato internazionale, però, preferisce le macchine tedesche. Le nostre non sono abbastanza innovative.