La seconda nomina a capo dello Stato del presidente Napolitano desta molte perplessità, sotto il profilo costituzionale e sotto quello dell’opportunità. Innanzitutto, si deve evidenziare che se è pur vero che i lavori della assemblea costituente affrontarono espressamente il tema della rielezione, decidendo di eliminare l’inciso che vietava la reiterabilità del mandato, non può tuttavia essere ignorato che in 60 anni si è creata una prassi costituzionale di segno avverso: Carlo Azeglio Ciampi aveva chiaramente giustificato la propria indisponibilità alla rielezione a Capo dello Stato motivando proprio sulla difficile compatibilità del settennato reiterato (14 anni) con il regime democratico, e segnatamente in ragione della eccessiva durata, citando espressamente una prassi che si era ormai creata.
Del resto, lo stesso Napolitano, in un primo tempo, si era espresso almeno apparentemente in questi termini. La conseguenza è che l’accettazione di un secondo mandato comporta una implicita svalutazione delle interpretazioni di Ciampi che suona quantomeno inopportuna, anche a voler superare il dubbio di costituzionalità per contrasto con la prassi consolidata.
Ma il vero dato critico della vicenda è costituito dalle “condizioni” che il Presidente Napolitano avrebbe posto per la sua rielezione e che oggi espliciterà nel dettaglio. Se le condizioni dovessero attenere alle modalità di governo del Paese, al rapporto con l’Unione Europea o, peggio, alla attuazione del programma redatto dagli eteroproclamati (proprio da Napolitano) saggi, senza alcuna rappresentazione femminile ed escludendo del tutto i rappresentanti di un quarto dell’elettorato (cioè il M5S), si avrebbe una non consentita interferenza del Capo dello Stato nel governo del Paese – esulando certamente il potere di “dettare condizioni” al governo dall’ambito dei poteri costituzionalmente attribuiti al Presidente della Repubblica – nell’ultimo caso addirittura attuativa della volontà di dieci persone prive di qualsivoglia legittimazione popolare e costituzionale.
Se invece tali condizioni dovessero essere riferite ad una temporaneità del mandato, consentendo così una sorta di “proroga” pre-determinata (ed è questa l’anomalia!) dalla esigenza avvertita da Napolitano di assicurare per un ulteriore breve periodo la guida del Paese in un momento ritenuto difficile, saremmo certamente al di fuori delle previsioni costituzionali, che non ammettono in alcun modo un mandato “a tempo”.
Del resto, se così non sarà, Napolitano resterà invece alla Presidenza della Repubblica fino a (quasi) 95 anni. Ed allora è lecito domandarsi, pur con tutto il rispetto istituzionale ed umano per la persona, chi avrà realmente in mano le redini del Paese? Il presidente ultranovantenne o i suoi consiglieri (risuonano ancora oggi i gravi echi delle intercettazioni tra il consigliere che fece da interlocutore al sen. Mancino riguardo alla grave vicenda della c.d. trattativa Stato-mafia)?
Un altro dubbio: non sarebbe meglio mettere un limite di età massima alla elezione del capo dello Stato e, magari, abbassare l’età minima di eleggibilità (il presidente Clinton aveva 46 anni al momento della sua elezione a Presidente degli Stati Uniti d’America)?
Concludo con una considerazione: Napolitano ha interpretato il proprio ruolo di Capo di Stato in termini molto incisivi nei confronti della vita della Repubblica, come dimostra l’attribuzione dell’incarico al governo Monti, composto da tecnici troppo spesso coinvolti in indagini e scandali (da ultimo l’arresto del sottosegretario alla PCdM Carlo Malinconico, che si aggiunge alla vicenda della casa del Colosseo del ministro Patroni-Griffi ed alle dimissioni del sottosegretario alla giustizia Zoppini, indagato per frode fiscale), ma siamo proprio sicuri che il ruolo “salvifico” del Capo dello Stato abbia giovato al Paese? Saremmo arrivati dove siamo oggi se si fosse andati alle urne al momento della caduta del governo Berlusconi?