La ragione effettivamente unificante del nostro sistema politico è sempre stata quella di tenere a bada la società. La messa sotto controllo dell’autonomia del sociale. Con un di più – in materia di tale lavoro sporco – per la Sinistra; in quanto affetta dalla “sindrome dell’ospite in casa d’altri” che ha sempre spinto questo pezzo di classe politica, sulla carta composto da indefessi rinnovatori democratici schierati dalla parte del popolo, a farsi carico di tutte le manovre più scopertamente reazionarie per ottenere il pieno riconoscimento della propria avvenuta integrazione.

Dal tempo in cui il guardasigilli Togliatti brigava per l’inserimento dei Patti Lateranensi tra le norme costituzionali e l’amnistia ai fascisti. Il cosiddetto “Migliore” (figurarsi il “Peggiore”), i cui nipotini hanno riproposto durante la Seconda Repubblica le stesse manovre a vantaggio di Silvio Berlusconi in una interminabile sequenza di condiscendenze pelose e autogol. Tale costante ci aiuta a capire il significato del settennato presidenziale di Giorgio Napolitano, questo antico uomo d’apparato che ha smarrito l’originaria stella polare (il Comunismo) mantenendo tutti i riflessi condizionati conseguenti: difendere la corporazione del potere dalle irruzioni esterne, nell’identificazione del pluralismo con il campo dei partiti di occupazione. Riflesso condizionato che privilegia collusività e accordi sottobanco (secondo pratiche di stampo eminentemente massonico) acuito dall’età; combinandosi in questo con la parabola umana e intellettuale declinante del suo amico nonché massimo promoter Eugenio Scalfari: col passare degli anni si tende a trincerarsi con crescente testardaggine nelle frequentazioni abituali, che si trasformano nell’unico universo conosciuto, e si presidia etologicamente digrignando i denti il contesto tradizionale in cui si sono trascorsi gli anni della propria vita, diventato il solo in cui ormai ci si riesce a orientare.

Sicché, nel momento in cui la corporazione politica percepiva di essere entrata in una zona a rischio mortale, non riuscendo a trovare un qualche equilibrio attorno al nome di un nuovo presidente della Repubblica che la tutelasse, l’istinto di conservazione collettivo non ha saputo fare altro che aggrapparsi al vecchio garante dell’ordine costituito: Giorgio Napolitano. Di conseguenza, tra giovedì scorso e sabato, nel giro di tre giorni il clima politico italiano ha subito un totale ribaltamento. Se prima era moneta corrente l’ostentato disprezzo nei confronti della classe politica maneggiona e cannibalesca, dalla rielezione di Napolitano in poi il mood è quello dell’apologia del compromesso (guai a chiamarlo “inciucio”) e dello spirito di sacrificio proprio di chi garantisce il mantenimento degli equilibri vigenti; ossia le scelte che hanno scaricato da decenni il costo del declino nazionale sui più deboli e indifesi. Operazione mimetica di regime che troverà il suo migliore manager in quel Giuliano Amato, non più perseguitato dai fax provenienti da Hammamet ogni volta che tirava fuori il capino dalla tana.

Ora la parola d’ordine è quella di serrare le fila, e tutti quanti annusano il vento si precipitano ad adeguarsi: ne vedremo delle belle in materia di camaleontismi codini. Un richiamo all’ordine generale che già si registra nella gestione dei primi talk show, dove il solo accenno alle vergogne cui abbiamo dovuto assistere la scorsa settimana viene bollato come pura e semplice demagogia. Dove ci si permette di mettere sullo stesso piano Stefano Rodotà e il rieccolo Amato, in quanto anagraficamente entrambi uomini della Prima Repubblica. Come se le biografie non contassero davvero niente…

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