Veto di Bersani (risentito per le accuse di dilettantismo) a D'Alema agli Esteri. Ma nel partito sono in molti a pensare che sia più opportuni il basso profilo, senza dirigenti in prima linea. Sullo sfondo la battaglia, già in atto, per la guida della "bad company", che vede Renzi in pole position
Quando, all’indomani del voto del 25 e 26 febbraio, disse che “il futuro del Pd è Matteo Renzi” probabilmente Enrico Letta non si aspettava che sarebbe toccato proprio a lui di “coabitare” da palazzo Chigi con l’astro nascente del sindaco di Firenze. Invece sarà il giovane vice di Pierluigi Bersani a guidare il governo di larghe intese imposto dal capo dello stato Giorgio Napolitano mentre il sindaco “rottamatore” tenterà la scalata al partito per “rifondarlo” da capo. Storia che si ripete per il Pd, anche se sotto un’insegna e con protagonisti nuovi rispetto al carattere post comunista che ha contraddistinto la diarchia di Massimo D’Alema e Walter Veltroni.
Stavolta tocca ai post democristiani giocarsi le sfide. “Letta intanto va al governo e a Renzi tocca prendersi la bad company”, ci scherza sopra un funzionario uscendo dal portone di largo del Nazareno. Dunque nella partita tra i due “bisogna vedere come intenderanno ricollocarsi le diverse componenti interne dopo che sulle votazioni per il Quirinale il partito ha dato prova di essere completamente balcanizzato”, disegna dal dipartimento esteri Nicola Manca.
“Nella giornata di domani incontrerò le parti politiche”, informa Letta, che in realtà ha iniziato sin dal primo pomeriggio i contatti con le forze politiche, Pdl in testa, per capire che margini ci sono per dar vita ad un governo. Il centrodestra vuole che la squadra sia caratterizzata da politici: “Coi tecnici abbiamo già dato”, dice Angelino Alfano, anch’egli in predicato per un ruolo da vice o un “portafogli pesante”. Mentre il Pd, com’è noto, preferirebbe tenere un profilo basso, con personalità di area ma non dirigenti. Per questo pareva esserci una preferenza per Giuliano Amato – ben visto anche da Napolitano – rispetto a Letta che, in quanto vicesegretario, coinvolge pienamente nel governo di larghe intese. Sebbene ci sia chi, come il dalemiano Michele Ventura, osserva che “il Pd è comunque in prima fila avendo la maggioranza alla Camera”.
Proprio D’Alema, perciò, “sarebbe la persona più adatta” per tornare al ministero degli esteri. Ma proprio sul collo dell’ex premier penderebbe la mannaia del segretario dimissionario Pierluigi Bersani, risentitissimo per l’accusa di “dilettantismo” mossa in relazione alla candidatura di Prodi. D’altra parte a via dell’Umiltà ci sono forti malumori sull’ipotesi che nel nuovo governo ci siano ministri che abbiano già fatto parte dell’esecutivo Monti, a partire dallo stesso premier uscente, in predicato proprio per la Farnesina. Possibile che anche quest’ennesima complicazione sia affidata alla lama del capo dello stato. Certo da parte dalemiana si guarda con favore al governo Letta anche rispetto a Amato: “Meglio lui – osserva Paolo Fontanelli – E’ giovane, ha esperienza come ministro ed è senz’altro capace. E’ il momento giusto per lui”.
Quanto invece al futuro del Pd: “Scontiamo mancanza di una riflessione critica sia sul risultato elettorale, che comunque andva elaborato, sia su quel che le elezioni dicevano riguardo la società italiana”, sostiene Fontanelli. Parole che chiamano in causa anche Bersani. Perché “Gli errori sono stati di tutti – conclude Fontanelli – ma non è che chi ha guidato sia esente”. A questo proposito mercoledì pomeriggio sarebbe durato un paio d’ore l’incontro fra il premier incaricato e i principali dirigenti del partito, tra cui il segretario uscente Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Dario Franceschini, che però smentisce di aver partecipato a riunioni.
Di certo la preoccupazione è grande sia per il governo, e la sua durata, sia per il partito. Il primo scoglio è proprio la fiducia. Al Senato si contano già “almeno tre o quattro” voti contro, sostengono i funzionari indicando tra le persone in sofferenza per Laura Puppato, Corradino Mineo, Mario Tronti. Di certo alla Camera annuncia il proprio voto contro la fiducia Giuseppe Civati, che continua a dichiarare di “non essere d’accordo” col governo di larghe intese. Mentre il prodiano Sandro Gozi sfoglia il calendario prevedendo vita breve per l’esecutivo.
Ovviamente un voto contro la fiducia consistente sarebbe un altro segnale di crisi per il Pd. E’ la prospettiva cui guarda Sel, che vorrebbe aggregare già in corso di legislatura una sinistra intorno al ministro uscente Fabrizio Barca e alle sue tesi. Ma al momento i dissidenti dovrebbero essere un numero esiguo. Semmai i problemi si riverberano sul congresso del Pd e l’eventuale durata del governo. Nel corso delle consultazioni Napolitano in proposito è stato chiaro: nessun limite di tempo, ha detto alla delegazione di Sel. Non un governo che fatta la legge elettorale rimandi al voto entro un anno come preferirebbe Renzi, quindi. Anzi: l’esecutivo potrebbe anche approvare una riforma costituzionale di carattere presidenziale o semi presidenziale; il che riporterebbe in gioco figure “bruciate” negli scrutini per il Quirinale, come Prodi e D’Alema, e porrebbe la questione dei ticket tra governo e presidenza.
Il prossimo 4 maggio l’assemblea congressuale del Pd aprirà l’iter in vista delle assise autunnali e Matteo Renzi – dopo aver mancato palazzo Chigi – si preparerà a tentare la via della segreteria del partito. Il sindaco di Firenze ha giocato come sempre d’azzardo, tentando il colpo a sorpresa. Ma, dopo lo schiaffo dei 101 su Prodi, ha dovuto ripiegare una seconda volta di fronte all’avversione dell’establishment. Vale per il Quirinale e per l’Europa: dove “il ragazzo spendaccione” è visto come una minaccia rispetto alle politiche di rigore sostenute con convinzione dal capo dello stato. E vale per il partito: dove Renzi è pur sempre vissuto come una minaccia, quando non come un corpo estraneo. Renzi comunque ha girato a proprio vantaggio lo stop, imputando a Berlusconi il veto – vero ma parziale – sul suo nome, in modo da scrollarsi di dosso le accuse di intelligenza col cavaliere mai sopite dopo il pranzo a Arcore.
Adesso il sindaco deve giocare la partita della segreteria. Fra un anno scade il suo mandato a Palazzo Vecchio. Ma più che tentare un bis Renzi pensa di correre per la leadership del partito, lo stesso che fino a pochi giorni fa diceva che non avrebbe “mai” guidato. Difficile infatti che il delfino di Bersani, il capogruppo alla camera Roberto Speranza, possa contrastare l’ascesa di Renzi, a meno che non ia proprio questi il primo a sostenerlo. D’altra parte il sindaco può contare sul sostegno dello stato maggiore, a cominciare proprio da D’Alema. Anche se proprio colui che finora era stato forse il suo più convinto sponsor, Enrico Letta, rischia di contendergli la premiership.