Azzardo un pensiero che è giuridico più che politico, anche se l’essenza delle riflessioni che vi propongo sono inevitabilmente anche politiche. Il tema è quello della democrazia come la conosciamo e se gli ultimi fatti italiani siano da considerarsi come un’anomalia (per molti molto di più, quasi un ‘golpetto furbastro’) oppure una prima forma di modificazione della forma democratica tradizionale a cui siamo abituati; quasi che, sotto i nostri occhi inconsapevoli, l’Italia stia sperimentando, seppure ancora come prototipo da perfezionare, un nuovo modello di democratico che diverrà poi una formula esportabile in questo travagliato nuovo millennio.
Una premessa: il mondo all’interno del quale la democrazia tradizionale è cresciuta e si è sviluppata non esiste più. Questo non è un parere ma un dato di fatto: non esistono più gli Stati-nazione come intesi dal Settecento al Novecento e stanno crecsendo invece delle macro regioni o nazioni-continenti (gli Usa, l’Europa e presto altre realtà africane ed asiatiche si dovranno organizzare in questo modo per reggere e gestire la globalizzazione dei commerci). A ciò va aggiunto che la tecnologia e la rete in particolare determinano movimenti e flussi di pensiero in tempo reale che risultano importanti ed affascinanti nella loro forza ed impatto sul reale ma che non possono divenire una bussola della navigazione politica perché troppo mutevoli e variabili nel brevissimo tempo.
Ecco allora che per salvaguardare la democrazia intesa come responsabile partecipazione alla scelta degli orientamenti circa la gestione della cosa pubblica ciò a cui stiamo assistendo potrebbe non essere quel ‘golpetto furbastro’ come da taluni definito ma un vero e proprio nuovo modello giuridico di organizzazione statale. Mi spiego: è evidente che queste macro nazioni non possono permettersi delle eccessive litigiosità al loro interno (nelle mini nazioni che le formano) e ciò perché ne andrebbe della politica comune e delle scelte strategiche comuni. Ecco allora che i singoli staterelli (le vecchie nazioni) si trovano a dover mettere in campo delle politiche sempre più condivise (tra partiti tradizionalmente ostili) e quasi predeterminate (sulla base di protocolli per grandi temi) e ciò in virtù delle esigenze interne ma anche in ragione delle direttive sovranazionali (è quanto sta già accadendo con la cessione di sovranità all’interno della Comunità Europea). Ecco dunque giustificate le ‘larghe intese’.
Ma c’è di più: queste politiche prima definite predeterminate dovrebbero essere varate, come direttive da seguire, da soggetti particolarmente qualificati e tecnici, nominati da un Presidente forte e dunque eletto direttamente dai cittadini. Ed ecco così giustificato il lavoro richiesto da Napolitano al gruppo dei saggi come base programmatica su cui formare il governo “il più possibile condiviso”. Quale dunque l’utilità delle elezioni (e dunque, concretamente, del termine democrazia in un sistema di questo tipo?). Ritengo che l’importanza delle elezioni del Presidente e dei membri delle Camere sarebbe quello di indirizzare, da un lato, il lavoro di predeterminazione della piattaforma su cui formare i temi principali del lavoro del governo (attraverso la elezione di un certo Presidente piuttosto che di un altro) e dall’altro di favorire ed indirizzare le modalità operative del governo con riferimento ai temi posti dai ‘saggi’.
Ciò mediante l’elezione di un Parlamento che deve aderire a quello schema programmatico ma deve farlo attraverso ricette che possono essere differenti (facendo prevalere l’una piuttosto che l’altra visione delle soluzioni, in un’ottica comunque di intese allargate). Probabilmente questa mia ipotesi di transizione da una forma parlamentare e democratica classica ad una scelta innovativa e diversa è solo una provocazione giuridica e difficilmente troverà il consenso dei lettori. Ma è una riflessione che vuole andare al di là delle discussioni ‘da bar’ o dalle comprensibili lamentele o condivisioni emotive che zampillano sulla rete e nei talk show televisivi. Ricordando sempre che i sistemi giuridici non debbono pre-determinarsi alla società (altrimenti, come detto in senso critico da Marx, il diritto diviene ideologia) ma seguire e saper interpretare le esigenze del tempo in cui si manifestano.