"Il fatto non costituisce reato": è finita così la vicenda giudiziaria della giornalista anticamorra e senatrice del Pd, accusata di aver calunniato un finanziere e attaccata in campagna elettorale dal coordinatore regionale Pdl Nitto Palma
In campagna elettorale il coordinatore campano del Pdl Francesco Nitto Palma, per difendersi dalle accuse di voler infarcire la lista azzurra di inquisiti, contrattaccava senza mai farne il nome: “Il Pd ha candidato come capolista al Senato in Campania una persona rinviata a giudizio per calunnia ai danni di un finanziere”. Dimenticando di aggiungere che la candidata in questione, la giornalista del Mattino di Napoli Rosaria Capacchione, cronista di razza specializzata in inchieste sulla criminalità organizzata, è costretta da cinque anni a vivere sotto scorta per le minacce del clan dei Casalesi ed è diventata un simbolo dell’informazione libera e anticamorra. Il refrain di Nitto Palma ha scadenzato conferenze e iniziative politiche pidielline. La sentenza era prevista prima delle elezioni, ma un paio di rinvii l’hanno fatta slittare. La capolista del Pd, ovviamente, è stata eletta. Col senno di poi, gli sarebbe convenuto ottenere il verdetto prima del voto. La Capacchione è stata infatti assolta “perché il fatto non costituisce reato”. Il pm d’udienza, un magistrato non togato, aveva chiesto una condanna a due anni e mezzo.
La Capacchione era stata risucchiata nelle vicende giudiziarie del fratello, Salvatore, imprenditore edile finito all’epoca nel mirino di un’inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza di Caserta sui suoi rapporti con alcuni politici napoletani e su alcuni progetti da realizzare a Napoli est. I fatti risalgono a circa 13 anni fa. Salvatore Capacchione era finito sotto usura e nei suoi confronti era partita un’azione giudiziaria congiunta da parte di alcuni suoi creditori. L’avvocato Giaquinto ricorda che in quel periodo “vengono minacciati tutti i familiari: teste di agnello, galline sgozzate gettate nella casa della mamma. Rosaria parla al telefono con il fratello che è sotto usura e ha paura. Utilizza parole colorite, è preoccupata. E quelle parole intercettate, ma ritenute illegittime, quindi da bruciare, vanno a finire su un giornale locale”.
La Capacchione avrebbe pronunciato la frase: “A quello lo finiamo”. Ma non è questo il motivo del rinvio a giudizio. La giornalista era accusata di aver calunniato un sottufficiale della Guardia di Finanza, Luigi Papale. In che modo? Accompagnata da una carissima amica che la aspettava in auto (la Capacchione non ha la patente) e che ha poi testimoniato al processo, la Capacchione era andata a prendere un caffè al bar con un ufficiale della Finanza e si era sfogata con lui lamentando la scarsa attendibilità del sottufficiale che indagava sul fratello. Il finanziere, di sua iniziativa, riassunse quel colloquio in un’informativa di reato. Scattarono indagini su Papale, che ne uscì completamente pulito. Di qui l’azione giudiziaria per calunnia. L’avvocato Giaquinto ha sostenuto che non c’era stata alcuna confidenza e che in ogni caso mancava un atto formale di denuncia, circostanza che escludeva il reato. Il giudice gli ha dato ragione.