“Adesso mi sono preso uno smoking”, mi ha detto l’altro ieri alla vigilia della cerimonia, e ho immaginato il suo sorriso scanzonato nel dirmelo, lo stesso che avevo scoperto nel febbraio 2011, quando partimmo per la Libia. Era il primo servizio di guerra per Fabio, e Il Fatto ci aveva mandato insieme, cosa piuttosto rara per i giornali italiani. Ci siamo conosciuti durante il viaggio e ora provo affetto, invidia professionale, simpatia e ammirazione per lui, per il fotografo più premiato di quest’anno che ci tiene a ricordare: “È iniziato tutto con voi, con il nostro viaggio a Bengasi”.
Esserci. Ed essere bravi a vedere. E a far vedere. Lo sguardo rapace e preciso. La fantasia e l’esattezza (da ingegnere elettronico, laurea a Torino). L’entusiasmo e l’incoscienza, ma anche la coscienza di un lavoro socialmente utile, e illuminante della vita degli altri, quelli che si raccontano quasi sempre per numeri e non per nome. “Beh, che dire, è una grande gioia, un grande riconoscimento. Sono contento che dopo mesi di silenzio da parte dei media internazionali, la Siria grazie a questo e ad altri premi è tornata sotto i riflettori. Questa è la cosa più importante . Ora, il mondo, i diversi paesi e i loro leader non potranno più dire ‘Non sappiamo cosa sta succedendo in Siria’ e se vogliono rimanere spettatori a questo massacro, devono prendersi le loro responsabilità”.
“Questo premio è per la gente siriana, per tutti coloro che combattono per ottenere la libertà. A volte sembra essere il fotografo o il giornalista premiato la news, ma non è così, noi siamo solo ambasciatori di una informazione necessaria, l’importante è quello che questi giornalisti documentano, le storie delle persone e dei popoli oppressi. Questo è ciò che conta”, mi ha detto Fabio da New York, tutto d’un fiato, con l’entusiasmo del suo lavoro.
La regola dei giornalisti sul fronte è: “Se vuoi vedere al meglio, segui i fotografi, loro sono costretti ad andare esattamente dove le cose accadono”. Il vantaggio, dopo il rischio, è che il loro è un linguaggio universale.
La Libia, la Siria, in gergo i “buchi del culo” del mondo di cui tutti sentono parlare ma nessuno sa come siano e che la comunità giovane, tumultuosa e visionaria dei fotografi, composta da individualisti con slancio umanitario, sospesi tra la gloria e l’impegno portano alla ribalta dell’informazione. Perché le immagini parlano meglio delle parole.
Il Fatto Quotidiano, 26 Aprile 2012