Ricordando il genocidio ruandese
Volge al termine il mese che ha segnato il diciannovesimo anniversario di uno dei più sanguinosi episodi della storia del XX secolo: il genocidio rwandese. Dal 6 aprile alla metà di luglio del 1994 vennero massacrate sistematicamente tra le 800.000 e le 1.071.000 persone.
L’idea di purezza etnica o razziale che sottese a quei tragici eventi di quasi vent’anni fa, era totalmente estranea al Rwanda precoloniale.
La «
tesi camitica» tuttavia venne a costituire l’ elemento base, fino agli anni ’60, della formazione degli intellettuali ruandesi e creò irrimediabili fratture interne alla popolazione preparando il terreno al genocidio del 1994.
L’amministrazione indiretta coloniale per essere applicata aveva bisogno di una base ideologica semplificata. I Belgi entrarono in un contesto costellato da diversi nuclei di potere, ma fecero in modo che da questi nuclei ne emergesse soltanto uno.
I missionari che conoscevano bene il territorio ruandese sapevano benissimo che la realtà era molto più complessa, che c’erano diversi tipi di Tutsi, che vi erano alcuni Re hutu ma si fecero anche loro operatori di quelle riforme amministrative che lentamente ruppero gli equilibri sui quali si basava la società rwandese, creando delle ingiustizie giustificate sulla base delle teorie di superiorità di una fazione sull’altra (tutsi inizialmente).
Il censimento della popolazione degli anni ’30, durante il quale apparse per la prima volta la menzione dell’ identità etnica come segno di riconoscimento sulle carte d’identità, venne deciso sulla base del numero dei capi di bestiame: con dieci e più vacche si diventava Tutsi, con meno vacche Hutu (il principio della discendenza non era valido perché gli appartenenti alla distinzione economica hutu-tutsi si sposavano tra loro).
Ecco che una distinzione economica basata su un complesso sistema di norme clientelari, divenne una identità etnica reale, e fissata per sempre, sulle carte di identità etniche del 1933. Quelli che così erano divenuti definitivamente Huti e Tutsi si preparavano ad andare incontro al loro tragico destino, perché quelle stesse carte di identità nel ‘94 vennero utilizzate per massacrare oppure risparmiare le persone.
Dagli anni ’50 cominciò a formarsi la contro-élite hutu in reazione a questa deformazione coloniale, con l’appoggio dei missionari che nel frattempo avevano abbracciato la causa hutu rispecchiando in essa la questione valloni-fiamminghi.
La situazione si era dunque ribaltata ma i paradigmi tuttavia erano rimasti esattamente gli stessi. I vertici cattolici condannarono l’abuso di potere (creato dal regime coloniale) e incoraggiarono la fondazione di un partito cristiano hutu. Nel 1957 il malessere si concretizzò nel Manifesto degli Hutu che presentò il problema sociale con l’impiego del termine «razza» testimoniando chiaramente l’adozione di un concetto di matrice europea, con gli hutu convinti di discendere dagli autoctoni bantu spodestati dagli invasori camiti.
Il resto poi fu massacro, nel quale ciascuno finirà per servirsi di rappresentazioni storiche (false) al fine di argomentare la lotta politica in termini etnici.
Neanche venti anni fa un popolo si auto-dilaniò davanti al mondo che li guardava a braccia conserte, in nome di una distinzione falsa.
Nel ricordare quei mesi tragici voglio riaffermare la complessità dei processi di costruzione della identità, un dato non «naturale», «oggettivo», statico, ma piuttosto il risultato della sedimentazione storica.
La comprensione delle identità plurali e dei processi storici evita l’insidia violenta che si cela dietro alla narrazione delle identità uniche ed immobili, come quelle razziali e etniciste.
Qualsiasi parola scritta pesa come il piombo. E può davvero cambiare le cose, servire da alibi alla violenza o alla pace.