Il governo di Enrico Letta che oggi ha avuto la fiducia anche dal Senato rappresenta il risultato peggiore possibile visti i risultati che avevano dato le elezioni. Il popolo italiano attraverso le elezioni aveva infatti chiesto discontinuità e innovazione. Questa domanda di cambiamento che si era tradotta in parlamentari, aveva dato luogo ad una situazione aperta: tre poli parlamentari senza che nessuno avesse la maggioranza assoluta. Vi erano due possibilità, entrambe praticabili: da un lato una alleanza tra Pd e M5S per cambiare linea politica e personale politico – dal presidente della Repubblica al governo – oppure la riedizione della maggioranza che aveva sostenuto Monti, nella continuità di politiche e personale politico.
Alla fine ha vinto questa seconda ipotesi sia sul Presidente della Repubblica che sul governo. La responsabilità di questo esito non è certo ascrivibile a Berlusconi, che poteva essere benissimo isolato e che alla fine è il vero vincitore di tutta la partita non per merito suo ma per colpa degli altri. La responsabilità maggiore sta sulle spalle del Pd che avendo la maggioranza assoluta alla Camera poteva e doveva aprire molto di più di quello che ha fatto al M5S, sia in termini di uomini che di contenuti. Il Pd non ha voluto provare a cambiare sul serio. La responsabilità – in misura minore – sta anche sulle spalle di Grillo, che invece di incalzare Bersani sul governo – uomini e contenuti – ha sostanzialmente chiuso ogni porta la dialogo favorendo l’inciucio tra Pd e Pdl sulla Presidenza della Repubblica. Sottolineo questi elementi e queste responsabilità politiche perché il risultato di ritrovarsi dopo le elezioni con un governo identico a quello precedente è un bel disastro che gli italiani e le italiane pagheranno a caro prezzo. Siamo di fronte ad un caso estremo in cui la volontà di cambiamento che la maggioranza degli italiani ha espresso in varie forme è stata rovesciata nel suo contrario per responsabilità dalla forze politiche che avevano avuto la delega a determinare il cambiamento medesimo. Dallo tsunami non siamo passati alla rivoluzione ma alla restaurazione e il Pd ha scelto organicamente da che parte stare.
Che il governo Letta sia un governo di restaurazione mi pare fuori di dubbio: dietro i vellutati discorsi democristiani, il governo si presenta come il fedele esecutore delle direttive europee sull’austerità. Letta ha detto in tutta chiarezza che la stella polare è l’impegno a ridurre il debito e la pressione fiscale, cosa che porta con se con ogni evidenza ulteriori privatizzazioni e ulteriori tagli del welfare. Parallelamente non si è sentita una parola contro il Fiscal Compact, sui caccia bombardieri o sulla redistribuzione del reddito. La continuità con Monti è totale. Gli impegni con l’Europa sul terreno dell’austerità sono invece stati ribaditi in forma perentoria, priva di ambiguità. Non solo: l’austerità è diventata la cornice al cui interno sono stati collocati anche gli accenni allo sviluppo, accenni che non hanno riscontri in impegni precisi. Così come non è stato fatto alcun accenno a dove recuperare la decina di miliardi necessari per realizzare le promesse contenute nel discorso (soluzione del problema degli esodati, rifinanziamento Cig in deroga, abolizione Imu su prima casa, non aumento dell’Iva. Un discorso quindi totalmente interno allo schema neoliberista di Monti in cui la differenza di accenti segna il passaggio da un governo tecnico a uno politico, non una differenza di contenuti. A questo si aggiungano le riforme istituzionali di tipo presidenzialistico – magari con una commissione presieduta da Berlusconi – e il quadro è completo
Per questo è necessario costruire da subito l’unità delle forze che da sinistra – M5S compreso – si oppongono al governo Letta in parlamento e fuori. Per costruire un movimento di massa contro il governo. Per evitare che alla restaurazione istituzionale segua una restaurazione sociale, dove gli specchietti per le allodole sapientemente collocati da Letta diventino il modo attraverso cui un regime si rifà il trucco e ricostruisce quel consenso che aveva perso. Per evitare che oltre al danno ci sia la beffa.