Oggi la crescita è il collante della società e la precondizione per una pur minima forma di equità distributiva. La decrescita auspicata dal M5S richiederebbe una rivoluzione civile e morale, che non può essere di un solo paese. Ma l’idea è nobile e qualcosa si può fare verso una maggiore sobrietà.

di Mario Sebastiani* (Fonte: lavoce.info)

Apocalittici e ottimisti

La “decrescita” come programma (o almeno come valore) lanciato dal Movimento 5 Stelle non è questione banale, da relegare fra le sirene di un movimento in cerca (con ragguardevole successo) di consenso. Anche perché l’idea è accattivante, ma la sua realizzazione sarebbe tutt’altro che popolare.

È una dibattuta questione che ha alle spalle una lunga e nobile storia, avviata da grandi economisti, sociologi e filosofi fin dalla prima metà dell’Ottocento. Un dibattito nel quale hanno convissuto catastrofiche previsioni con altre di segno opposto. Fra le prime, Thomas Malthus, convinto che il futuro della crescita era fatalmente segnato dalla scarsità delle risorse naturali, decretando un destino di miseria che, a dirla tutta, l’umanità coltivava nei suoi propri cromosomi (perlomeno in quelli che la spingevano a moltiplicarsi senza senso della misura); e Karl Marx, che per la verità si spellava le mani nell’attesa che il capitalismo crollasse, complice la sua avidità e la stagnazione prodotta dalle sue interne contraddizioni. Fra le seconde, John Stuart Mill e John M. Keynes, che invece profetizzavano che si sarebbe finalmente raggiunta un’età dell’oro e dell’abbondanza dove, una volta soddisfatti i bisogni “reali” della popolazione, tre o quattro ore di lavoro al giorno sarebbero state sufficienti a “soddisfare il vecchio Adamo che è in noi”; il bello di questo stato del mondo era che avremmo potuto dedicare il nostro tempo a coltivare il lato estetico, culturale, sociale della vita. Vale la pena citare anche, fra i grandi filosofi, Bertrand Russell, per il quale nella nostra società l’essenza del progresso è nella capacità di produrre un numero doppio di spille nello stesso tempo di lavoro anziché lo stesso numero di spille in metà tempo di lavoro. E come dimenticare Thorstein Veblen, che fustigava la logica del consumo “vistoso”, status symbol fonte di una continua e sterile rincorsa nei consumi e di frustrazione e disagio sociale per chi non ce la fa a tenere il ritmo.
In tempi più recenti (intendo dagli inizi degli anni Settanta del secolo scorso) si sono aggiunte altre sporadiche voci, da Nicholas Georgescu-Roegen al Club di Roma, focalizzate in primis sui limiti fisici e ambientali di una crescita continua. Ora è la volta di Serge Latouche, più incline a coltivare un’impostazione socio-antropologica (e un tantino commerciale). Soprattutto da quest’ultimo sembra ispirata la “decrescita secondo 5 Stelle”.

Pil e sviluppo

La maggior parte dei personaggi che ho citato erano tutt’altro che nemici del mercato e del progresso, ma avevano ben distinti due concetti che oggi tendiamo invece a identificare: la crescita materiale, misurata dal tasso di incremento del Pil, e lo sviluppo, inteso come progresso di valori civili, sociali e culturali: identificando in quest’ultimo, una volta soddisfatti i bisogni materiali “reali” della popolazione (ossia un decoroso ed equamente diffuso livello di vita), la fonte del benessere.
Oggi la crescita del Pil è universalmente considerata termometro dello stato di salute dell’economia e della società, indice del successo della politica e metro di posizionamento di ciascun paese nella comunità internazionale. E non importa che sia di comune osservazione che – superata una determinata soglia di sviluppo – il Pil non possa essere considerato come unico driver del benessere di una società e che la crescita sia una gerla che contiene balocchi e carbone. Secondo il pensiero mainstream, infatti, si tratta di esternalità, disallineamenti da un modello che va qua e là emendato, ma guai a metterlo in discussione alle radici.

Resta comunque che la tesi grillina della decrescita come stato felice è sì una deviazione dal comune credo, ma non la si può bollare di giacobinismo. Come utopia sì, almeno se non ci spingiamo oltre “dopodomani”.
Lo scenario prefigurato non lo si può realizzare semplicemente “frenando la crescita” (ammesso che oggi e in prospettiva di medio termine siano necessari interventi attivi in questa direzione). Ci vorrebbe una rivoluzione, civile, morale, di sensibilità, di valori. Ovviamente una “rivoluzione universale”. Proprio in nome di questa universalità prescindo dalle consuete e non infondate obiezioni circa l’insostenibilità del (nostro) debito pubblico o la “tenuta dell’euro” in uno scenario stazionario solo nostro. Lasciamo da parte i provincialismi e il breve periodo; voliamo alto e guardiamo lungo.
È di comune constatazione che la molla della crescita senza limiti è che il mercato soddisfa bisogni (o desideri) che ha previamente creato, in una spirale senza fine che appaga temporaneamente quelli che possono permetterselo e lascia frustrazione e risentimento in quelli che restano fuori dalla corsa. Non si può per decreto mettere fine a questa corsa, modificare i modelli di consumo (più libri e meno ipad), perché non si può cambiare per decreto il sistema dei valori, distorto quanto si vuole, che ne sono la molla. Bisognerebbe cominciare dal basso, dall’istruzione primaria, dall’educazionefamiliare; riusciamo realisticamente a immaginare padri e madri che impartiscono ai figli austeri insegnamenti, opposti a quelli che loro stessi sentono propri? E se anche una parte di loro riuscisse nell’operazione, non prevarrebbe la sirena dell’altra parte? Non vedo, né auspico, un Pol Pot che possa farsene carico.
E poi il cambiamento dovrebbe essere, appunto, universale, posto che la malapianta sopprime quella buona. Non è concepibile rivoluzionare radicalmente i modelli di consumo in un solo paese, salvo uscire dalla democrazia; e nemmeno questo funzionerebbe, visto come sono andati a finire i regimi comunisti.
Anni fa, Giorgio Ruffolo rappresentava una società economicamente in crescita come una colonna in marcia, dove quelli che stanno in coda si aspettano che prima o poi potranno raggiungere la posizione che oggi occupano quelli che sono in testa, i quali nel frattempo saranno andati a loro volta avanti. Un’economia stazionaria è invece come una colonna ferma dove tocca pestare i piedi sul posto o per andare avanti spintonare altri indietro. In questo contesto operazioni di redistribuzione delle risorse avrebbero effetti dirompenti, non sostenibili da regimi democratici. In definitiva, oggi la crescita è collante della società e precondizione per una qualche equità distributiva.

Questo vale tanto più se da una singola collettività si passa a considerare l’universo, dove i divari di benessere – nei paesi e fra i paesi – sono un multiplo di quelli che lamentiamo da noi. Come gestire (non militarmente) la “decrescita globale”? Mettendo un tappo a chi sta indietro o livellando il benessere di tutti (dove il rapporto fra i benestanti e quelli che se la passano male è all’incirca 1 a 5)? Davvero siamo pronti, noi privilegiati, ad abbracciare fino in fondo il messaggio messianico?
Suggestiva, dunque, l’idea dei grillini, e nobile. Ma utopica, almeno nella forma che viene comunicata. Questo non significa che dobbiamo restare dove siamo e lo stesso movimento fornisce utili “dritte”, almeno per iniziare a lavorare in casa nostra. Di fondo, una maggiore sobrietà, a cominciare da quella personale. In definitiva la veemente e sacrosanta battaglia contro i costi della politica va, credo, declinata anche nei termini più generali di condanna di ogni forma di ostentazione, da qualunque parte venga, inclusa dunque l’ostentazione (la volgarità) e la vacuità degli eccessi del consumismo. Sotto questo profilo, non si può non coglierne il contenuto educativo e augurarsi che sia efficace. Non so se e quanti elettori 5 Stelle siano consapevoli che tutto ciò vale anche per loro – speriamo di sì. Nella stessa direzione va l’attenzione per l’ambiente, la green economy e il risparmio energetico, i consumi pubblici verso quelli privati. Non so in che misura e in che tempi, ma questo frastuono può servire a sensibilizzare tutti noi. Non a convertirci alla logica della “decrescita”.

*Mario Sebastiani: E’ professore ordinario di Economia politica nella Facoltà di economia dell’Università di Roma ‘Tor Vergata’, dove è direttore del master di II livello in Antitrust e regolazione dei mercati.

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