Dopo l’arrogante indisponibilità all’ascolto di Ornaghi, anche una simile ‘normalità’ appare rivoluzionaria. Naturalmente non si tratta ancora di un ‘fatto’ (un provvedimento, una decisione) su cui basare un giudizio: per questo ci sarà tempo. Ma che il mandato di Bray inizi con la sua partecipazione ad una giornata promossa dal basso e intitolata alla «ricostruzione civile» de L’Aquila è significativo.
Ma perché domenica prossima quasi mille storici dell’arte si riuniscono all’Aquila?
Innanzitutto lo facciamo per vedere con i nostri occhi. Forse è questo il principale dovere professionale di uno storico dell’arte. E domenica vogliamo vedere con i nostri occhi la realtà (senza paragone al mondo) di un simile centro monumentale abitato che ancora giace distrutto, a quattro anni dal terremoto che l’ha devastato e a quattro anni dalle scelte politiche che l’hanno condannato a una seconda morte.
Se nell’Italia del 2013 c’è un fronte in cui lo scempio del paesaggio e la distruzione del patrimonio artistico si fondono in un unico micidiale attacco alle libertà fondamentali dei cittadini, quel fronte è L’Aquila.
La prima cosa che vogliamo dire è che L’Aquila è una tragedia italiana, non un problema locale. È questo il senso della nostra presenza fisica, è questo il senso della volontà di guardare con i nostri occhi i monumenti aquilani in rovina. L’articolo 9 della Costituzione impone alla Repubblica di tutelare il patrimonio storico e artistico «della Nazione» attraverso la ricerca: ecco, oggi la comunità nazionale della storia dell’arte è all’Aquila. Per dire che L’Aquila appartiene alla Nazione, e che la Nazione deve essere al servizio de L’Aquila.
È per questo che gli storici dell’arte devono andare a L’Aquila: per portare, attraverso i loro occhi allenati, nella coscienza intellettuale di tutta Italia che cosa è, veramente, la tragedia de L’Aquila; per avviare una vicinanza di tutta la comunità scientifica della storia dell’arte alla ricostruzione materiale dei monumenti, con tutti i problemi enormi che le sono collegati; per riscoprire la vera identità della loro missione professionale. Per comprendere, cioè, che la storia dell’arte non serve a intrattenere ricchi signori attraverso le mostre mondane della domenica pomeriggio, ma serve a restituire – attraverso la conoscenza – ai cittadini italiani l’arte e la storia delle loro città.
Mai come oggi, mentre finalmente i primi ventitré cantieri iniziano a prendersi cura di alcuni tra gli edifici monumentali del centro, è vitale che il sapere critico, la ricerca, l’insegnamento, la professionalità degli storici dell’arte siano a disposizione degli organi di tutela pubblici. E noi ci siamo.
Ma la ricostruzione della città di pietre non basta. Per questo la nostra giornata è intitolata alla «ricostruzione civile». Gli storici dell’arte sanno che la città di pietre ha senso solo se è vissuta, giorno dopo giorno, dalla comunità dei cittadini. E questo legame vitale a L’Aquila è stato volontariamente spezzato. Così, anche ammesso che, tra vent’anni, riusciamo ad avere L’Aquila com’era e dov’era, avremo una generazione di aquilani che non è cresciuta in una città, ma nelle cosiddette new town: cementificazioni del territorio senza alcun progetto urbanistico, e anzi immaginate come somme di luoghi privati. Senza spazio pubblico, senza arte, con un paesaggio violato.
Il rischio è allora che qualcuno pensi di trasformare L’Aquila ricostruita in una specie di set cinematografico, o di disneyland antiquariale, fatto di facciate e gusci pseudo-antichi che ospitano servizi turistici in mano a potenti holdings economiche. Si tratterebbe, cioè, di fare a L’Aquila in un colpo solo ciò che un lento processo sta facendo a Venezia o a Firenze: deportare i cittadini in periferie abbrutenti e mettere a reddito centri monumentali progressivamente falsificati.
Il 5 maggio gli storici dell’arte sono a L’Aquila per affermare che non basta una ricostruzione materiale: è il tempo di una ricostruzione civile.
E il fatto che il nuovo ministro per i Beni culturali sia disposto a vedere e ad ascoltare tutto questo è un piccolo segno di primavera in questo terribile, eterno inverno politico italiano.