Cadaveri su cadaveri continuano auscire dalle macerie del Rana Palace di Dacca, in Bangladesh, crollato la settimana scorsa con all’interno migliaia di lavoratori tessili sottopagati. Ma dagli Stati Uniti arriva un primo “mea culpa” ufficiale: l’ammissione fatta dal Dipartimento di Stato che alcune imprese della moda americana ed europea, tra cui l’italiana Benetton che però nega, si avvalevano delle aziende che producevano nel “palazzo della morte”.

Dalle viscere del Rana Plaza sventrato dalle ruspe sono stati estratti altri corpi, che hanno portato il totale dei morti accertati a quota 442, secondo l’ultimo bollettino dell’esercito, impegnato a sgomberare le macerie. Un conteggio destinato ad aumentare nei prossimi giorni, quando gli scavi raggiungeranno i piani inferiori, dove si pensa che siano intrappolati ancora decine di corpi ormai in decomposizione.

Mentre il Bangladesh è ancora in stato di shock per l’incidente, uno dei più tragici della storia del Paese, la produzione nei poli tessili di Dacca sta tornando lentamente alla normalità dopo gli appelli della premier, Sheikh Hasina, e degli industriali, preoccupati per i ritardi nelle consegne degli ordini dei clienti stranieri.

Su questo delicato aspetto degli acquirenti occidentali è intervenuto il Dipartimento di Stato americano: “Alcune società che lavoravano nello stabile (crollato) sembrano avere legami con numerose imprese negli Stati Uniti e in Europa e noi continueremo a discutere con queste imprese del modo in cui possono migliorare le condizioni di lavoro nel Bangladesh”, ha dichiarato da Washington il portavoce del ministero degli esteri Usa, Patrick Ventrell, senza però fornire i nomi delle imprese americane che si rifornivano nel Rama Plaza. Finora solo la canadese Loblaw e la britannica Primark hanno ammesso di essere acquirenti abituali e hanno anche annunciato risarcimenti alle famiglie delle vittime.

In serata, invece è trapelata la notizia che il colosso statunitense Disney da marzo aveva rinunciato a produrre in Bangladesh dopo il rogo a una fabbrica tessile, sempre a Dacca, lo scorso anno. Intanto la produzione è ripresa nei distretti industriali della capitale che il 27 e 28 erano stati chiusi dall’associazione degli industriali per paura di disordini. Il settore impiega oltre 3 milioni di persone e costituisce l’80% dell’export. Anche ieri, le manifestazioni del Primo maggio sono degenerate in disordini. Per oggi era previsto uno sciopero dei partiti dell’Opposizione guidati dal Bnp (Partito nazionale del Bangladesh) dell’ex premier Khaleda Zia, che è stato poi cancellato all’ultimo momento.

Sotto pressione dei partiti rivali e anche dall’ala “dura” degli operai, il governo di Dacca ha deciso di usare il pugno di ferro coi responsabili del crollo, a cominciare dal costruttore, Sohel Rana, arrestato mentre tentava per lasciare il Paese. L’ultima testa a cadere è stato il sindaco di Savar, la cittadina dove sorgeva il complesso, sospeso per aver concesso la licenza edilizia per uno stabile di cinque piani. Altri tre erano stati costruiti illegalmente e sarebbero proprio quelli che hanno mostrato segni di cedimento alcuni giorni prima della tragica mattina del 24 aprile. 

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