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Dagli al musulmano: quando il monaco buddhista s’incazza

Qualsiasi banale pretesto vale per scatenare una violenza sempre latente. Oakkan, cuore economico della Birmania, un centinaio di chilometri a nord dell’ex capitale Rangoon: una donna in bicicletta urta in modo accidentale un monaco di 11 anni, facendogli cadere il recipiente destinato a raccogliere le offerte. È la scintilla che fa scattare l’ennesima, spropositata reazione buddhista contro la minoranza musulmana. In poche ore, un uomo ucciso, dieci feriti, 18 arresti, decine di case e negozi dati alle fiamme in quattro villaggi della zona. Nel paesino di Mie Laung Sakhan, una folla inferocita di almeno 300 persone arrivate in moto, distrugge completamente una moschea.
Dietro questa barbarie, sempre più spesso, c’è il gruppo che si fa chiamare “969”, contraddizione stridente al preteso principio di non-violenza che dovrebbe animare la religione buddhista: con il loro incitamento a una specie di apartheid islamofobico, raccolgono sempre maggiori consensi nel paese. Si oppongono ai matrimoni misti, invitano i buddhisti a non mettere piede nei negozi gestiti dai musulmani, chiedono che nessuno venda o affitti terre ai Rohingya, la minoranza apolide (poco meno di un milione di persone) concentrata nello stato sud-occidentale di Rakhine. Nonostante la maggior parte di loro abbiano sempre vissuto in Birmania, i circa 3 milioni di buddhisti di questa zona li considerano come intrusi del vicino Bangladesh, fomentati in questo anche dai monaci.

È proprio  nel Rakhine che, nel corso del 2012, si è registrata la più grave ondata di scontri, con 200 morti e 140 mila sfollati. E ancora nel marzo scorso, le persecuzioni religiose hanno fatto 43 vittime a Meiktila, nel centro del paese. Al solito, un banale pretesto ha funzionato da scintilla: una disputa tra un commerciante musulmano e alcuni clienti buddhisti. Solo dopo che interi quartieri erano stati dati alle fiamme, l’esercito è intervenuto in applicazione dello stato d’emergenza proclamato dal governo centrale, proprio mentre le violenze si estendevano in direzione della nuova capitale Naypyidaw: una chiara dimostrazione che il piano del presidente civile Thein Sein per arginare gli estremismi è ancora lontano dal raccogliere i suoi frutti. Proprio nei giorni in cui la Ue ha premiato le aperture democratiche della Birmania con l’abolizione definitiva delle sanzioni, un rapporto di Human Rights Watch accusa le forze di sicurezza locali appoggiate dai monaci buddhisti di “crimini contro l’umanità” in una campagna di “pulizia etnica” contro i musulmani.