Si chiama ocean grabbing e fa pensare immediatamente al land grabbing, l’acquisizione su larga scala di terreni agricoli che da nemmeno dieci anni a questa parte è divenuta la nuova forma di colonizzazione dei Paesi in via di sviluppo (specie nel continente africano) da parte delle economie più potenti del Pianeta (in particolare quelle emergenti dell’Asia).
In effetti di ocean grabbing si parla molto meno che di land grabbing (di cui pure si parla troppo poco): anzi, non ne parla quasi nessuno. Anche perché sembra impossibile l’accaparramento degli oceani e dei mari, il bene comune per definizione, dove non esistono confini e dove immaginiamo non ci siano proprietari.
All’origine di questo fenomeno troviamo la crescente pressione esercitata dall’aumento della popolazione (il 60% degli abitanti della Terra vive in aree costiere), la diminuzione delle risorse ittiche, l’inquinamento, le varie forme di sfruttamento dei mari e delle coste (a partire dall’industria turistica).
Le forme di accaparramento degli oceani sono diverse e spesso sono garantite da accordi tra governi o addirittura si celano dietro iniziative che si presentano come etiche ed ecologiche.
Una delle tante forme di accaparramento degli oceani è direttamente legata al problema della sicurezza alimentare, perché nel Sud del mondo i prodotti ittici vengono prelevati in modo massiccio da grandi flotte straniere ed esportati all’estero, lasciando le piccole flotte di pescherecci locali quasi del tutto incapaci di nutrire le popolazioni del posto, per le quali spesso il pesce è la principale fonte di proteine. In Africa sono soprattutto le grandi navi dei paesi Europei, della Cina e della Russia a fare incetta di risorse indispensabili per la popolazione. Perfino quando si tratta di attività legali e documentate, le flotte godono di sussidi generosi che le avvantaggiano e non subiscono direttamente i costi del depauperamento delle risorse ittiche e del degrado delle risorse. In simili condizioni la pesca diventa un’attività industriale altamente lucrativa, anche a costo di ledere il diritto al cibo di milioni di persone.
E’ però nella privatizzazione della pesca che si cela oggi la forma più insidiosa (perché poco nota) di ocean grabbing. La privatizzazione della pesca non è una novità: per oltre quarant’anni le teorie economiche dominanti hanno promosso la privatizzazione dell’accesso alle risorse ittiche in un’ottica di massimizzazione dei profitti. La privatizzazione comporta una ridefinizione dei diritti di accesso o dei privilegi di sfruttamento di risorse ittiche libere, comuni o dello Stato, aumentando il livello di attribuzione di queste risorse pubbliche a privati. Di recente però questa tendenza è stata presentata anche come risposta alle preoccupazioni ambientali relative alla salute dei mari e ha ottenuto così il sostegno di una parte dell’opinione pubblica. Spesso chiamato razionalizzazione, piuttosto che privatizzazione, questo fenomeno domina ormai le discussioni politiche sulla pesca a livello mondiale.
Il tema è complesso e rischia di rimanere oggetto dell’attenzione solo di pochi addetti ai lavori, come se non vivessimo su un Pianeta che al 70% è fatto di mari e oceani. E’ importante invece parlarne, conoscere, informarsi e per questo motivo la prossima settimana a Genova, durante Slow Fish, se ne parlerà assieme ad alcuni dei massimi esperti internazionali in una conferenza dedicata. Sono gli stessi pescatori della rete internazionale legata a Slow Food e Terra Madre ad averci fatto conoscere questo problema ed è con loro che vogliamo provare a capire e a cercare risposte.
Per chi non potrà essere a Genova, qui è disponibile un articolo di approfondimento.