Piazza Fontana, lo scandalo petroli e le sue morti misteriose. Poi Sindona, le tangenti Lockheed, la P2... Il "Divo Giulio" è stato coinvolto nei più grandi misteri italiani, ma fino ai primi anni Novanta il Parlamento ha sempre respinto le richieste di autorizzazione a procedere presentate dalla magistratura. E continua a opporsi all'accesso a quelle carte sulla storia nera della Repubblica
Non solo mafia e delitto Pecorelli. Prima che le autorizzazioni a procedere contro Giulio Andreotti fossero concesse dalle Camere per questi due casi, furono 27 le richieste che la magistratura inviò per indagare sul 7 volte presidente del consiglio. Richieste negate e i cui atti, depositati presso commissione parlamentare per i procedimenti di accusa, rimangono ancora inarrivabili per chi volesse consultarli. Su di essi, infatti, fanno sapere dall’archivio della Camera dei deputati, vige un segreto quarantennale che parte dal 1969 e che copre via via le vicende che hanno coinvolto Andreotti.
Alcune di queste storie, tuttavia, possono almeno essere raccontate perché ampiamente dibattute in altre sedi. E ce n’è una, forse tra le più clamorose, che ha a che fare con la madre di tutte le stragi, quella di Piazza Fontana, dove il 12 dicembre 1969 una bomba esplose all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura e fece 17 morti e 88 feriti. Anni dopo – correva l’anno 1981 – Giulio Andreotti fu chiamato in causa insieme a due colleghi, Mariano Rumor e Mario Tanassi durante il processo di Catanzaro.
I fatti che si addebitavo ai tre politici risalivano al 1974, quando Andreotti era ministro della Difesa, Rumor presidente del consiglio e Tanassi il predecessore del Divo a Palazzo Baracchini. In quell’anno fu rilasciata un’intervista al Corriere della Sera in cui si parlava di Guido Giannettini, nome in codice agente Z. Ufficialmente era un giornalista, ma sotto questa copertura svolse un ruolo di ideologo di estrema destra e collaboratore dei servizi segreti. Quando Andreotti fu sentito come teste nella città calabrese in cui stava celebrando il processo per il massacro di Milano, oppose segreto di Stato attribuendone la responsabilità a Rumor e a Tanassi, che non lo sconfessarono. Per questo gli atti finirono alla commissione inquirente che tuttavia il 23 agosto 1981 decise di non procedere.
Un’altra vicenda è del 1984. Allora si voleva sapere perché nel 1974 il generale della guardia di finanza Raffaele Giudice fosse stato nominato comandante generale, carica che mantenne fino al 20 novembre 1978, quando fu collocato in pensione. La domanda non era leziosa perché Giudice, risultato iscritto alla P2 e la cui candidatura avrebbe goduto del placet dell’allora sottosegretario andreottiano al Bilancio Salvo Lima, fu raggiunto un anno dopo da un’inchiesta sul cosiddetto scandalo dei petroli. Inoltre c’era la questione del dossier Mi.Fo.Biali, 600 pagine in cui si raccontava la storia di Mario Foligni, pronto a rompere la Dc (e il suo potere) con una nuova creatura politica, il Nuovo partito popolare.
E ancora, su Giudice si concentravano gli interrogativi per la morte di un altro ufficiale della fiamme gialle, Salvatore Florio, che nel 1974 ebbe l’incarico di indagare proprio su quel dossier e sulla P2. Alcune informative legate al secondo filone investigativo e redatte dal capitano Luciano Rossi furono trovate il 17 marzo 1981 a Castiglion Fibocchi insieme alle liste degli affiliati alla loggia di Licio Gelli. L’ufficiale si suicidò quando si venne a sapere scatenando come tante altre volte negli anni a venire la furia di parte del parlamento, Bettino Craxi in primis, contro presunte pressioni della magistratura. Ma intanto era morto anche Florio in un incidente stradale avvenuto il 26 luglio 1978 a Carpi, in provincia di Modena.
Era accaduto un mese dopo uno scontro tra il colonnello e Giudice, che si era sentito dire al collega queste parole: “Le dirò presto tutto quello che sono venuto a sapere su di lei”. Ma già in precedenza, dopo le indagini di Florio su P2 e petroli, i rapporti tra i due si erano rotti e l’investigatore era stato trasferito ad altri incarichi. A fine 1982, la vedova di Florio, Miriam Cappuccio, sentita dal giudice istruttore romano Ernesto Cudillo e il cui verbale venne trasmesso alla commissione Anselmi, disse al magistrato: “Non so chi avesse dato a mio marito incarico di fare indagini sul conto di Gelli, so soltanto che spesso […] veniva convocato da Andreotti, ma non so per quale motivo”.
“Spesso”, aggiunse la moglie di Florio, “al ritorno da tali incontri, […] diceva che l’onorevole Andreotti gli chiedeva indagini che esulavano dai suoi compiti specifici istituzionali. Alle mie domande su cosa avesse risposto alle richieste, mio marito diceva di essersi espresso con un ‘ni’. Si trattava dell’autunno 1973”. Ma se l’incidente stradale che uccise Florio rimase per l’esito delle indagini un incidente, la magistratura avrebbe voluto stabilire che ruolo avesse avuto Andreotti nella nomina del generale Giudice. Niente da fare neanche stavolta perché il 23 novembre 1984 la vicenda venne archiviata non consentendo la messa in stato d’accusa di colui che nel 1974 era stato ministro della Difesa.
La parabola del bancarottiere Michele Sindona con relativi progetti di salvataggio, lo scandalo Lockheed esploso nel 1976 e che ha avuto un’estensione internazionale, la presunta frequentazione di uomini della P2 su cui si concentrò la commissione d’inchiesta e su cui lavorò anche la procura di Palermo. Ma ancora prima, sempre attraversate dalla figura di Giulio Andreotti senza che ne rimanesse imbrigliata, ci furono lo scandalo delle banane e quello che tabacchi. Meno ricordato infine un capitolo risalente al 1998 e che chiamava un causa il piano Panters (o Paters, secondo alcune fonti), progetto antiterrorismo targato Francesco Cossiga risalente al sequestro Moro e mai attuato. Anche in questo caso l’accusa parlava di distruzione di documenti e Andreotti liquidò la vicenda affermando che era ridicola.