Incassate, seppur con cauto ottimismo, le (tiepide) rassicurazioni da parte dell’Ocse sullo stato di salute dell’economia italiana, rimane la sensazione di fondo che dal rapporto presentato pochi giorni or sono nella sede del Cnel non emerga un quadro rassicurante. Anzi. Il Governo Letta è senza dubbio chiamato a confermare una linea precisa (la “barra dritta”, l’ha definita il segretario Ocse Angel Gurria) che accanto a profonde riforme strutturali, vitali per il paese, possa garantire un equilibrio del già precario bilancio pubblico.
Parrebbe infatti dai dati Ocse che il trend crescente del debito nostrano debba confermarsi anche per il prossimo biennio, attestandosi attorno ai 130 punti percentuali sul Pil.
Ecco dunque che tornano in auge vecchi discorsi da parte di economisti e ben informati. Tra tutti l’utilizzo o meno delle riserve aurifere. Già, perché non tutti sanno, ma nei caveau della Banca d’Italia sono ammassati qualcosa come 2.500 tonnellate di lingotti, che se nel 2005 avevano un valore di 20 mld di euro, ad oggi, grazie all’impennata dell’oro sui mercati internazionali, hanno raggiunto circa il doppio del valore.
Da quanto emerge da un recente sondaggio gli italiani sarebbero favorevoli ad un loro utilizzo come mezzo alternativo alle misure di rigore: è curioso poi notare come solo il 4% degli intervistati sarebbe però favorevole alla dismissione delle riserve, mentre la maggioranza preferirebbe utilizzare le stesse come garanzia per l’emissione di nuovo debito.
In effetti vendere oggi le nostre riserve di oro non appare come la soluzione più logica e convincente se non altro alla luce dei risultati di ribasso che l’oro ha fatto registrare negli ultimi mesi. Così, mentre la Svizzera riacquista tutte le riserve messe fino ad oggi sul mercato, mentre paesi come Russia, India e Cina integrano le loro già ingenti disponibilità (per intenderci, la Cina da sola ha le risorse per acquistare l’oro mondiale due volte), l’Italia si ritroverebbe a deprezzare l’unica risorsa capace di mantenere il valore nel tempo. Insomma, non è proprio il caso di vendere il nostro oro. Se ne stanno accorgendo, nel loro piccolo, anche gli italiani che sinora si erano rivolti ai compro oro, attività di cui molto ho parlato, anche su questo giornale.
Così, in un momento di “bear market”, come dicono gli analisti, non appare neanche più tanto conveniente vendere bracciali e anelli, sperando che nei mesi a venire questi possano recuperare il valore perso per strada. Ma allora cosa fare?
Di questo e di altro parleremo in un convegno di Aira, l’associazione che presiedo, dal titolo emblematico: “compro oro, finanza e legalità” – a Roma, il 22 maggio prossimo – alla presenza di rappresentanti delle istituzioni, dell’antimafia, delle autorità e della società civile.
L’evento è gratuito e tutti potranno partecipare. Sarà, spero, l’occasione per fare cultura, per raccogliere nuove idee confrontando le esperienze di ciascuno e, perché no, di mostrare ancora quella risorsa di cui questo paese non ha mai mancato, ossia la fiducia nel futuro e nella ripresa, l’unico asset non tangibile che non ha mai fatto capolino nei documenti ufficiali.