Il riferimento storico è a una data spartiacque. Nel 1793 l’inviato britannico Lord Macartney arrivò a corte chiedendo di poter aprire un’ambasciata. Allora il Pil dell’Impero di mezzo era pari a un terzo di quello mondiale e l’imperatore declinò l’invito altezzosamente: “I prodotti del vostro paese non ci sono necessari”, scrisse al re Giorgio III. Pochi anni dopo gli inglesi tornarono con le cannoniere per obbligare il paese ad aprirsi al commercio. Scoppiò la guerra dell’Oppio, poi venne la fine dell’impero e il maoismo.
Da allora la Cina ha compiuto uno sforzo straordinario per tornare agli antichi fasti. Centinaia di milioni di persone sono uscite dalla povertà e altrettante sono entrate a far parte di una nascente classe media. È ormai divenuta la seconda economia mondiale e si prevede che scalzerà gli Usa entro il decennio. Si tratta del “sogno cinese”, lo slogan che più di ogni altro caratterizza la nuova leadership. Ma la sua ascesa dipende anche stavolta dalla capacità di riformare il Partito. E la scomparsa di quest’immagine non lascia presagire nulla di buono.
Il Fatto Quotidiano, 4 maggio 2013