Nell’era della politica come continuazione della comicità con altri mezzi (che l’anima di Karl von Clausewitz ci perdoni), il dibattito sull’austerità equivale al dibattito su quanta benzina mettere nel serbatoio bucato di un’auto con il motore fuso per farla ripartire.
In termini di utilità, le gag quotidiane sull’austerità conferiscono solo un tocco di pochade alle diatribe tra sciamani, agghindati di maschere e piume che si professano economisti, anzi addirittura macroeconomisti. Quando poi si uniscono al rito anche i passacarte di lusso della Commissione Europea, ignari di cosa sia una fabbrica o un trading floor, alla maionese impazzita di comicità e politica si aggiunge una pennellata di Munch.
Chi ha cognizione o esperienza di come funzionano i processi economici fuori dai libri di testo, dai dossier preparati nei ministeri e dai vaneggiamenti elettorali, è ben conscio che il problema dell’Italia, come di buona parte dell’Unione Europea, non è certo il fiscal compact o il Patto di Stabilità, da quasi 15 anni destinato alle ortiche appena uno dei capi di governo (inclusi gli inflessibili olandesi e tedeschi) si esibisce a Bruxelles nella sceneggiata sull’intollerabilità dei sacrifici (soprattutto di chi li ha votati e delle imprese che finanziano la propaganda).
Il problema è che per quanta benzina si metta nel serbatoio, il motore non gira perché troppe imprese producono beni e servizi che nessuno vuole o a prezzi maggiori che altrove. In Europa si contano sulla punta delle dita i settori e le imprese che ancora si reggono in piedi senza protezioni, massicci sussidi statali o linee di credito a perdere da banche insolventi. In Italia fino a poco tempo fa riuscivano ancora a prosperare le attività non esposte alla concorrenza internazionale come quelle legate all’immobiliare, alla ristorazione, al turismo, ai servizi finanziari, poi anche queste sacche si sono sgonfiate. Resistono le imprese con tecnologie di nicchia e un portafoglio di clienti internazionali fino al quando il credit crunch non le strangolerà.
Riparare il motore è un’attività molto poco gratificante per politicanti e burocrati adagiati su cuscini foderati di denaro pubblico. Significa agire su una miriade di testi legislativi demenziali ed incomprensibili, su divieti assurdi, su applicazioni di regolamenti incrostati da decenni e ormai privi di senso. Significa seguire le indicazioni di chi lavora nelle imprese, non nei corridoi di ministeri ed enti locali, significa prendere esempio da casi come Singapore, la Svizzera, Taiwan e persino dal Brasile. Significa rompere i pacta sceleris tra sindacati del pubblico impiego e la casta politica. Significa attuare lo Statuto del Contribuente trasformandolo in legge Costituzionale. Significa riformare un fisco fuori controllo, non solo per esosità, ma soprattutto per la farraginosità e l’incertezza delle regole affidando il contenzioso ad un giudice terzo non ad un tirapiedi dell’Agenzia delle Entrate.
Significa disboscare la selva di moduli, pareri, nulla osta, che rendono impossibile aprire una qualsiasi attività economica senza dover aspettare decenni o pagare mazzette. Significa prosciugare la palude del diritto amministrativo che pone lo Stato in una posizione preminente rispetto al cittadino trasformato in suddito. Significa introdurre la valutazione degli insegnanti nelle scuole e dei professori nelle università che, a parte qualche eccezione, sfornano laureati con scarse competenze per il mondo del lavoro. Significa eliminare le Fondazioni bancarie, conferire poteri agli azionisti di minoranza contro gli amministratori, reintrodurre il falso in bilancio, rifondare un diritto civile semifeudale e un sistema giudiziario dedito alla tutela dei malfattori.
Il governo barzel-Letta su tutto questo mantiene un silenzio più tombale dei condoni di Tremonti. Va in tournée nelle capitali europee perché l’architrave delle larghe intese – presenti e passate (sotto l’egida di Monti, del Letta zio o di D’Alema) – è un miraggio: i tedeschi che saldano i debiti e riempiono la greppia per assicurare la sopravvivenza delle strutture di potere parassitario (con il contorno dell’Imu-nità per Berlusconi e il colpo di spugna sul Montepaschi).
Anche se si spendesse qualche manciata di miliardi in più attraverso il settore pubblico saldamente in mano della burocrazia ministeriale, quando va bene, e dei cacicchi di partito quando va male, servirebbero solo a comprare un po’ di consensi alle prossime elezioni (come a quelle passate) e a dare ulteriore impulso alle importazioni da paesi come Cina, Corea e Germania. Non spunterebbero certo posti di lavoro e tanto meno nuove imprese (per qualche esempio sui tragici destini delle start up in Italia ecco un link illuminante). Al massimo si ingrosserebbero le code dei questuanti fuori dai palazzi.