Definire “morale” un thriller è roba che rischia di lasciar perplessi e allontanare i veri amanti dell’oscurità del genere (thriller, ma noir soprattutto). Nel caso de “La città ideale” però – esordio anche da regista di Luigi Lo Cascio – sarebbe un peccato perché il film è un grande film. Una pellicola il cui piccolo/grande merito non è quello di aver semplicemente scommesso sulla qualità, ma di aver vinto tale sfida. Non era facile.
Sotto certi aspetti Lo Cascio ha la “sfortuna” di esser stato il volto di uno di quelli che non si dimenticano: Peppino Impastato ne “I cento passi” (di Marco Tullio Giordana). E lo è stato spingendo al massimo, con tutta la necessaria dismisura di un giovane che la vita l’ha vissuta da protagonista e quel che aveva da dire lo ha gridato, finché glielo hanno lasciato fare. Prendere o lasciare, da Peppino Impastato in avanti, Lo Cascio su alcuni – non tutti – dei suoi personaggi, anche quelli apparentemente più diversi, spinge così. Ma non è questo il rischio dell’aver dato volto, voce e corpo, piccolo, smunto eppure vigoroso, a Impastato.
Il rischio più serio è quello di una forte immedesimazione (nello spettatore, fra l’attore e il personaggio), la tentazione di rivedere Peppino in alcune delle interpretazioni di Lo Cascio, è sempre in agguato negli occhi di qualcuno. “Lo spettatore – a volte – deve riuscire a disincarnare il mio personaggio e il suo volto con quella maschera che sembra coincidere con esso” dice lui stesso. Più chiaro di così…
La prima prova registica di Lo Cascio è un esame ben oltre che superato, è un esame nel quale prima ancora di rispondere alle domande ne ha poste di altrettanto importanti. Ha ridiscusso, per esempio, le monocordi e indistinguibili (le une della altre) logiche di soggetto e sceneggiatura di un certo cinema italiano, facendo subito capire che, pur con la distanza che gli resta ancora da percorrere, è al lavoro di gente come Chabrol, Polanski o Sorrentino, alle piccole ma rifinitissime figure da noir simenoniano più che da “Montalbano sono” che guarda. E infine, cosa non di poco conto, il film mette in moto quella piccola, quotidiana necessità che ogni buon thriller/noir tende a fare, insinua nello spettatore il bisogno di sapere come sono andate le cose.
Nel suo “La città ideale”, il neo regista interpreta Michele Grassadonia, un tipetto strano che, per certi versi potrebbe, magari alla lontana, ricordare agli amanti del noir il personaggio interpretato da Roman Polanski ne “L’inquilino del terzo piano” (tratto da “The tenant” il romanzo di Topor per la regista dello stesso Polanski). Michele è un ecologista irriducibile quanto sensibile. Architetto di Palermo, ha lasciato la Sicilia per trasferirsi in quella che lui considera la città ideale, Siena. I colleghi non lo amano, perché non lo capiscono (diffidare di ciò che non si comprende è un ingrediente base di ogni buon thriller/noir) vive tutto solo in un appartamento dove sperimenta energie alternative. Una sera di pioggia tampona un’ombra e finisce contro un’automobile parcheggiata. Qualche chilometro dopo rinviene il corpo di un uomo riverso sull’asfalto. Chiamati i soccorsi, viene interrogato dalla polizia stradale sull’accaduto. La macchina ammaccata e alcune sfortunate circostanze, convincono gli agenti della colpevolezza del Grassadonia, che da soccorritore diventa indagato. Del film, opportunamente secco, robusto di sceneggiatura anche se con qualche piccola pesantezza di troppo, non sveliamo altro; diciamo solo che vive di due anime, quella (appunto) che costeggia l’impegno e la denuncia del tessuto sempre più liso e misterioso di cui sono fatti i rapporti fra esseri umani, e un’altra, più oscura, più rarefatta, che sembra non aver la minima idea – e compiacersene – di cosa debba o possa essere la società in cui viviamo. In altre parole, un cinema per cambiare la società (Marco Tullio Giordana) per denunciarne le falle (Franco Rosi) o godersene gli afrori e le miserie in santa pace come suggeriva Simenon nei suoi romanzi?
Lo Cascio è stato all’Auditorium dei Laboratori delle Arti nell’ambito della rassegna CIMES; una buona occasione per parlare del suo mestiere di attore con gli studenti (prevalentemente, ma non solo) e del complesso rapporto fra interprete e pubblico.
“A volte penso che un attore non dovrebbe farsi vedere oltre il suo lavoro sullo schermo, il pubblico si aspetta che l’attore oltre a questo sia anche un pensatore, ma chissà, magari mica è vero…” esordisce dimostrandosi in realtà, abile nel frantumare subito la patina pubblico/oratore, e prosegue soppesando i rischi dell’interazione con gli spettatori “Bisogna star attenti, quando si parla col pubblico, a non diventare un inciampo, per lo spettatore stesso, verso la strada della futura attendibilità dei tuoi personaggi”.
Il sottile filo fra l’interpretazione di personaggi a volte vicini all’identità dell’attore, e il rischio di scambiare questi personaggi come facce dell’attore stesso è riportato da Lo Cascio con un esempio di famiglia “Il mio spettatore più implacabile è mia madre. Quando capita che io interpreti personaggi vicini alle mie corde, o con atteggiamenti che possono sembrarle simili ai miei, lei mi guarda e mi dice Vabbè, non hai fatto niente…”.