Giustizia & Impunità

Ciao Agnese Borsellino, combatteremo fino all’ultimo giorno

Ho chiesto a Lucia di metterle tra le mani una foto di Paolo e le ho messo vicino la foto del loro matrimonio perché so che è così che avrebbe voluto affrontare il suo ultimo viaggio, al braccio del suo Paolo, quel giovane magistrato che aveva incontrato, per un caso non del tutto fortuito, appena sei mesi prima di quel giorno nello studio di suo zio, il notaio Furitano.

Io la conobbi per la prima volta così, nel suo abito da sposa, il giorno del loro matrimonio. Quando partii per il servizio militare, nove mesi a Roma da allievo ufficiale e sei mesi in Sardegna da sottotenente, Paolo non la aveva ancora incontrata. Allora lui non era nemmeno fidanzato e io, era il 1968, insieme a quella che sarebbe diventata mia moglie, eravamo fidanzati da anni, avevo fissato la data del nostro matrimonio per il 22 dicembre. Ma poi, appena tornato, seppi che Paolo aveva fissato il suo matrimonio per il 23 dicembre e allora io, ero il fratello minore, dovetti spostare il nostro al 4 di gennaio, al ritorno dal suo viaggio di nozze.
Paolo avrebbe dovuto essere il testimone di mia moglie, ma lui e Agnese quel giorno arrivarono tardi e mia moglie dovette all’ultimo momento chiedere di sostituirlo a mia sorella Rita. Poi noi partimmo per il nostro viaggio di nozze, che fu in realtà soltanto il nostro trasferimento da Palermo a Borgofranco d’Ivrea, la città dove avevamo scelto di vivere per fuggire da Palermo, una città dove io, con la mia laurea in Ingegneria, non avrei mai potuto trovare un lavoro e dove non volevamo far nascere e crescere i nostri figli, e così rari furono poi i momenti e le occasioni in cui potei incontrare e conoscere meglio Agnese.

I miei primi ricordi di lei restarono così legati a quel suo abito da sposa bianco con il quale la avevo intravista al braccio di mio fratello in quella chiesa della Magione nella quale si sposarono e nella quale si riusciva appena ad entrare, suo padre era il presidente del Tribunale, e in quel meraviglioso hotel di villa Igea a Palermo nel quale io, fino ad allora, non avevo mai messo piede.

Poi, nei venti anni successivi, non troppe le occasioni di incontrarci, tre o quattro volte l’anno, quando tornavo a Palermo, Paolo assorbito dal suo lavoro, io dal mio, fino al Natale del 91, quando, credo fosse la prima volta, passammo una settimana insieme in montagna, ad Andalo, nel Trentino.

E poi il 19 luglio del ’92, quel giorno che portò via la vita di Paolo e cambiò per sempre la vita di tutti noi. Con Agnese e con i figli di Paolo allora tante più occasioni per vederci, con Paolo che, adesso più che mai, era al centro di tutti i nostri pensieri, di tutte le nostre parole, di tutte le nostre azioni.
E Agnese che mi diceva che la verità sulla morte di Paolo non sarebbe mai potuta venire alla luce, perché altrimenti sarebbe saltato in aria l’intero paese.
E Agnese che mi diceva che tante cose non poteva dirle perché aveva paura per i suoi figli, perché aveva paura che dopo averle ucciso il marito potessero fare dal male anche a loro.

Poi la morte di mia mamma che, dopo averci regalato ancora cinque anni della sua vita andò a raggiungere Paolo, come avrebbe voluto fare il giorno stesso che, dopo il suono del campanello, sentì quell’esplosione che le portava via il figlio, e i miei anni di silenzio quando, persa la speranza, non riuscivo neanche più a tornare solo che per qualche giorno a Palermo.
E infine gli anni della rabbia quando, con le mie Agende Rosse, tornai nella mia città per impedire che via D’Amelio continuasse ad essere profanata dagli avvoltoi che venivano in quella via, ogni 19 luglio, per accertarsi che Paolo fosse veramente morto. Forse anche lei mi avrà preso per pazzo, all’inizio. Bisogna essere pazzi in questo nostro disgraziato paese per continuare a cercare Giustizia e Verità, per trascinare centinaia di giovani che alzano in aria un’agenda rossa e gridano resistenza arrampicandosi su per le rampe del monte Pellegrino fino al castello Utveggio, per continuare a parlare di una trattativa che ha accelerato o determinato la morte di Paolo quando tutti la negavano, per ostinarsi a contestare le menzogne di un ex ministro fino a vederlo sul banco degli imputati in un processo proprio su questa trattativa, non più pretesa, non più fantomatica, con l’accusa di falsa testimonianza.

Ma poi, a poco a poco, nella parole di Agnese che diventavano sempre più forti man mano che il tremendo male che l’aveva aggredita ormai da tre anni la consumava sempre di più condannandola ad un martirio che ha avuto fine solo alla mattina del cinque di maggio ho sentito, pur nel profondo rispetto delle istituzioni che ha sempre ispirato i suoi gesti e le sue parole, di averla vicina come non la avevo mai sentita.
La forza che ho sentito emanare dalla sua figura, dalla sua voce voce quando, nell’androne del suo palazzo, sulla sedia dalla quale il suo male non le permetteva più di alzarsi, ha voluto incontrare i giovani che, dopo avere manifestato per Nino Di Matteo, hanno voluto andare in via Cilea per manifestare ad Agnese il proprio affetto, era tale da farci tremare e riempire gli occhi di lacrime.

Di questo volevo ringraziarti, Agnese, nella chiesa dove ti abbiamo salutato per l’ultima volta come ventuno anni fa avevamo salutato il tuo Paolo, della forza che potremo prendere da te, dalle tue parole, per le tante battaglie che dovremo ancora combattere. Volevo dirti soltanto poche parole, ma in quella chiesa, in un funerale che avevamo chiesto fosse soltanto per i familiari e per la gente che ti voleva davvero bene, c’erano delle persone che non avrebbero dovuto essere lì e che avevano occupato i primi posti, quelli dove si viene meglio ripresi dalle televisioni.

Se avessi parlato, tu lo sai, io sono pazzo, non sarei riuscito a tacere e ti avrei turbato e allora quelle parole te le dico adesso: Ciao Agnese, per la Verità e per la Giustizia, te lo promettiamo, combatteremo fino all’ultimo giorno della nostra vita.

 19luglio1992.com