Daniela, Sarah e Ruth, ebree americane in tour nei Territori, iniziano così ad armeggiare maldestramente con il calcio di un’enorme pistola nera a doppia canna. Lo sguardo azzurro ghiaccio di Yisrael, circondato da una ragnatela di rughe provocate dal sole e dall’aria secca del deserto, si scioglie in un’espressione di tenerezza per queste ragazze volenterose e così fedeli alla causa da aver pagato circa 150 euro per 5 ore di training (costo per l’addestramento base offerto da Caliber3) ma decisamente incapaci, anche se per nulla intimorite dalla potenza letale di queste armi: si spara ai bersagli con pallottole vere, mica a salve.
Un plus che rende questa “giornata particolare” ancora più elettrizzante, almeno dal loro punto di vista. “Sono le nipoti di amici e vogliono capire come si vive nelle colonie e negli outpost dove siamo costretti a difenderci dai palestinesi 24 ore su 24. Tutti i giorni dell’anno, senza riposo. Siamo sempre in pericolo. Abbiamo appena sepolto un giovane uomo, Evyatar Borowskydi 32 anni, padre di 5 figli che ora cresceranno orfani. Un palestinese, un terrorista, l’ha accoltellato mentre stava aspettando l’autobus, appena fuori dalla colonia dove viveva vicino a Nablus”, racconta Danziger con una smorfia di rabbia, mentre il suo sguardo torna glaciale. “Dopo averlo ammazzato gli ha anche rubato la pistola che aveva nella borsa e ha cercato di sparare ai soldati israeliani che stavano a un check point poco lontano. Non possiamo mai abbassare la guardia”.
Poi aggiunge lapidario che i palestinesi li vogliono tutti morti ma che anche Netanyahu non li ama. “Qualche mese fa i soldati dell’esercito israeliano hanno fatto un’incursione notturna nell’avamposto di Migron e l’hanno distrutto dopo aver sgomberato tutti quanti, anche i bambini sono finiti per strada nel cuore della notte. Ma se pensano che ci arrenderemo si sbagliano di grosso. Netanyahu dovrà passare sul nostro cadavere prima di farci uscire dalle colonie. Da qui non ce ne andremo mai e continueremo ad ampliarle perché questa terra è nostra, come è scritto nella Bibbia”. Mentre ascoltiamo queste affermazioni senza ritorno, arriva Mark, un gigante di 35 anni di origine sudafricana, che ogni anno rientra temporaneamente nell’esercito come riservista volontario.
È uno degli istruttori di Caliber3 oltre che un colono di Efrat, ma ora si sta preparando per diventare rabbino. “I coloni sono come tutte le altre persone, mica siamo delle bestie rare o facciamo cose diverse dagli altri”. Ognuno ha il proprio lavoro. C’è chi fa l’impiegato, chi il medico, chi l’insegnante di matematica o il politico come l’ex ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, sollevato dall’incarico perché in attesa di essere giudicato dai magistrati israeliani per abuso d’ufficio.
Mark continuerà a fare l’istruttore presso Caliber3 per i servizi di sicurezza delle società israeliane e straniere (per questioni di privacy non ci dice quale sia quella italiana che si è rivolta a loro) che vogliono migliorare la resa delle loro guardie private. “Anche se divento rabbino devo pur vivere e mantenere i miei 4 figli”, dice ridendo. Nel tardo pomeriggio ci raggiunge David, docente di storia in una scuola media. Anche lui vive in una colonia, Shilo. È un volontario di Mishmeret. Oggi anziché addestrarsi con le armi, aiuterà il suo amico Ysrael a piantumare. Il secondo obiettivo dell’Ong di Danzinger è lo sviluppo del territorio. Ma deve anche comprare un giubbotto antiproiettile nuovo, prodotto da una fabbrica gestita da Mishmeret. Secondo loro, per fare il contadino in queste zone è meglio indossarlo.
il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2013