I giudici hanno rigettato le richieste della società stabilendo che tutte le onlus e associazioni impegnate in campagne di sensibilizzazione non possono essere “silenziate” con il presupposto dell’uso improprio di un marchio commerciale, soprattutto se hanno ad oggetto interessi collettivi “di rango costituzionale”, come la salute pubblica
La libertà di critica in Italia prevale ancora sul diritto industriale e gli interessi che tutela, a maggior ragione se è funzionale alla tutela di interessi collettivi. Lo ha stabilito la sentenza del Tribunale di Milano (leggi) che ha rigettato il ricorso di Enel contro Greenpeace per la sua campagna “bolletta sporca”, un’operazione massiccia di controinformazione avviata un anno fa dall’associazione ambientalista per informare cittadini e consumatori sui danni ambientali e alla salute prodotti dalle centrali a carbone. Enel aveva trascinato in tribunale la onlus verde assumendo come lesive le iniziative intraprese dagli attivisti, in particolare una campagna con fac-simile della bolletta che riportava in bella vista i dati sulla mortalità causata dalle centrali dell’ex monopolio. Un anno dopo i giudici del Tribunale di Milano, sezione specializzata in materia di impresa, hanno rigettato le pretese dell’Enel che aveva già perso una causa in sede civile, a Roma, relativa ai contenuti dell’iniziativa che riteneva lesivi e diffamatori. Per bloccare la campagna, Enel ha poi tentato la strada del diritto industriale e commerciale, impugnando in particolare l’uso e la riproduzione non autorizzata del suo marchio sulle finte bollette e su una finta edizione di Metro che annunciava l’abbandono di Enel del carbone, con una pubblicità commerciale ovviamente fittizia.
La causa si muove dunque sulle linee del diritto industriale, lamentando l’uso non autorizzato dei marchi registrati. Non certo per un vezzo sulla proprietà intellettuale: rivendicarne l’abuso può comportare richieste di danno a sei zeri. Enel, in particolare, chiedeva al giudice di sanzionare Greenpeace al pagamento di 10mila euro per ogni giorno di inesecuzione delle eventuali disposizioni inibitorie e mille euro per ciascuno militante che dovesse proseguire sulla via della contestazione. In altre parole, qualche milione di euro. Che per un colosso da 70 miliardi di budget sono una puntura, per una piccola associazione con 58mila sostenitori l’iniezione letale. I giudici hanno rigettato però le richieste stabilendo un principio importante per tutte le onlus e associazioni impegnate in campagne di sensibilizzazione: non possono essere “silenziate” con il presupposto dell’uso improprio di un marchio commerciale, soprattutto se hanno ad oggetto interessi collettivi “di rango costituzionale”, come la salute pubblica. I giudici milanesi, per rafforzare il principio, citano l’art. 21 della Costituzione e il primato della libertà di manifestazione del pensiero.
“Gli argomenti usati da Enel non stavano in piedi da nessun punto di vista – dichiara Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia – Questa sentenza ribadisce che il diritto di critica è inalienabile e che l’uso di loghi aziendali in campagne di critica con motivazioni fondate è legittimo”. Greenpeace, in effetti, ha condotto molte campagne utilizzando loghi aziendali, sia in Italia che all’estero, con l’obiettivo di cambiare le politiche ambientali e industriali di grandi aziende. “In molti casi queste campagne si trasformano in collaborazioni con le stesse aziende per rendere più verdi i loro cicli produttivi. Lo abbiamo fatto con grandi case editrici, aziende agroalimentari, multinazionali della moda e automobilistiche. Ma è più difficile che questo accada con giganti energetici e delle fonti fossili per la più lunga inerzia degli investimenti in questo campo. Noi continueremo a provarci”, conclude Onufrio.
Enel, infine, contestava a Greenpeace di aver utilizzato la “sua” bolletta per fare proseliti e ottenere iscritti, in pratica di aver utilizzato il marchio per un’attività di tipo commerciale. Circostanza che il giudice ha rigettato totalmente ravvisando una impossibile equiparazione tra gli scopi statutari di un’associazione a ragioni economiche, per riflesso le sue campagne non possono essere ricondotte a una finalità commerciale. Chiusa questa partita restano in piedi le altre. Sono infatti una decina le cause aperte dal colosso elettrico contro le azioni dell’associazione ambientalista per sensibilizzare sui cambiamenti climatici causati dagli impianti più inquinanti. Da Brindisi ad Adria, dove 30 attivisti sono finiti processo per una manifestazione del 2006 a Porto Tolle.