Il tecnico scozzese lascia il Manchester United dopo 27 anni e 38 trofei: è stato il Napoleone degli allenatori. Precursore di moduli e stile, ha tenuto testa a tutti coloro che hanno voluto imitarlo. Se ne va da vincente: ha appena vinto il 13esimo scudetto aqlla guida dei Red Devils
“Ho riflettuto a lungo, non è una decisione che si può prendere a cuor leggero, ma ho deciso di ritirarmi. E’ il momento giusto”. Comincia così il lungo comunicato con cui Sir Alex Ferguson, il tecnico scozzese che ha segnato più di ogni altro la storia del calcio mondiale, annuncia dopo 27 anni l’addio alla panchina del Manchester United. L’addio di Ferguson, capace lasciare a calcio da vincente a 71 anni dopo il tredicesimo campionato appena conquistato alla guida dei Red Devils, non segna la fine di un’epoca, ma di diverse ere geologiche calcistiche. Nel futuro gli studiosi, analizzando il calcio del dopoguerra, lo divideranno secondo le varie età storiche cadenzate dall’ex tornitore del porto di Glasgow: capace di anticipare tutte le trasformazioni del calcio moderno, e di governarle con l’autorità e il carisma dei grandi condottieri.
Non è stato Talleyrand, ma Napoleone. Non ha tramato nell’ombra, tirando i fili di un potere occulto, ma si è sempre esposto in prima persona, con quel suo corpo da manovale e quel faccione rubizzo. Fino all’ultimo. Quando, splendido settantenne, ancora oggi alza i pugni al cielo festeggiando come un ragazzino ogni gol della sua squadra. Pura passione, che gli ha permesso in oltre cinquanta anni di calcio di diventarne imperatore assoluto. Sempre da vincente, senza mai incontrare la sua Waterloo. Nato durante la guerra a Govan, sobborgo di Glasgow, come tutti i ragazzi cresciuti in quelle strade a 16 anni comincia a lavorare come tornitore al porto. Qui, la sua autorevolezza lo porta a diventare sindacalista, a esporsi anche a tutela dei più anziani. “Ero socialista – scriverà anni dopo nella sua autobiografia – e pur non abbassando mai la testa di fronte ai padroni, non riuscii ad ammetterlo davanti a mia madre”.
Le sere, dopo il lavoro, gioca a calcio nel Queen’s Park. L’impatto con il campo è duro. “Fu contro un bastardo di nome McKnight – ricorda – Mi buttò a terra e mi diede un morso. Nell’intervallo il mio allenatore s’infuriò perché non ero stato abbastanza combattivo e non avevo risposto. Il secondo tempo fu un inferno…”. E’ tra il tornio e i campi di periferia scozzese, che Sir Alex consolida la sua tempra d’acciaio. Da calciatore vince un titolo di capocannoniere e gioca per due anni nei Rangers Glasgow, la squadra protestante della città. Ma è da allenatore che scrive la storia. L’esportazione della rivoluzione pallonara Ferguson la comincia nel 1978, quando diventa tecnico dell’Aberdeen, con cui riesce a rompere il duopolio scozzese di Rangers e Celtic e a vincere tre campionati.
Qui realizza l’impresa più bella. Nel 1983 a Goteborg sconfigge 2-1 ai supplementari il Real Madrid in un’indimenticabile finale di Coppa delle Coppe. Il dado è tratto: è uno dei migliori ‘manager’ britannici, nella scia dei grandi Shankly e Clough. Sono i tempi in cui, per comprare un giocatore, il tecnico sale in macchina e va a trovarlo a casa, sperando di arrivare prima dei rivali. In cui gli allenamenti sono esercizi basilari di educazione fisica, misti a partitelle sul campo. E lui è il migliore. Dopo aver guidato la Scozia ai mondiali di Messico ’86, è chiamato dal Manchester United che non vince da 26 anni. E’ la terza fase dell’era Ferguson: il regno. Di nome, e poi di fatto quando nel 1999 viene insignito del titolo di baronetto dopo la storica treble: la vittoria nello stesso anno in Premier League, FA Cup e Champions League.
Il regno socialista di Sir Alex a Manchester è suddiviso in piani quinquennali. Ha già compreso, in anticipo sui tempi, che il vecchio ‘manager’ all’inglese è superato, e si propone come uno dei maggiori innovatori dal punto di vista tattico. L’inizio è difficile, ma non demorde. Non segue solo la prima squadra, si occupa maniacalmente della crescita e dell’educazione dei soldati del futuro. Con l’arrivo di Cantona, ciliegina sulla torta della prima nidiata cresciuta in casa, quella dei Giggs e dei Beckham (cui anni dopo uno scarpino in faccia ricorderà il rispetto per chi guida) comincia la seconda fase: quella del posizionamento interno. E arrivano le prime vittorie. E’ il calcio televisivo della Premier League. E l’ex tornitore dimostra un’insospettabile abilità nella padronanza dei media. Fa impazzire il rivale Keegan davanti alle telecamere, e supera il Newcastle in un infuocato finale di campionato.
Poi è la fase dell’espansione oltre i confini. Anche in Europa si dimostra un passo avanti ai rivali: la vittoria con due gol in pieno recupero contro il Bayern Monaco nella finale di Champions League del 1999 è da leggenda. Cambiano i tempi, e gli avversari. Ma lui è già lì. Anzi, è già più avanti. Resiste alla prima ondata della nouvelle vague, e poi alla seconda e alla terza. In casa ha la meglio sui vari Wenger, Mourinho e Ancelotti. In Europa conquista un’altra Champions e poi perde due finali in tre anni contro il Barcellona di Guardiola, di 30 anni più giovane di lui. Ma è sempre lì. L’anno scorso è eletto migliore allenatore del XXI secolo, quest’anno vince il suo 38mo trofeo alla guida del Manchester United, il 49mo di un’incredibile carriera, e annuncia il ritiro. A pochi chilometri da Waterloo, beffando il destino e la sconfitta. “E’ il momento giusto”. Il suo posto è nella storia dei vincenti.