Qualche mese fa ho conosciuto e intervistato Pietro Pinna, uno dei primi obiettori di coscienza italiani. Più che la sua esperienza, ci ha tenuto a spiegare la non violenza, come filosofia di vita e metodo di azione.
Ora, non intendo con queste mie parole soffermarmi sull’argomento: si può sentirne parlare dalla sua viva voce qui e non escludo di scriverne in futuro.
Però mi è tornato in mente proprio oggi, quando quattro ragazzi dell’Ex Cuem, libreria dell’università Statale di Milano fallita, occupata e sgomberata sabato mattina, hanno interrotto la lezione che stavo seguendo. La mia professoressa ha chiesto di lasciarle terminare il discorso e poi ha ceduto loro la parola, ascoltandoli. Alcuni miei colleghi, invece, si lasciavano andare a frasi poco gentili.
Ho ripensato a Pinna perché mi ha parlato di una non violenza che prima di tutto è un atteggiamento mentale: quello di chi si mette in ascolto, analizza i fatti, mette in discussione sé stesso e gli altri. Un atteggiamento che non ho riscontrato in nessuna delle due parti che si fronteggiavano, fiere del proprio retroterra culturale (o presunto tale).
Penso che per giudicare sia necessario conoscere e per conoscere si debba approfondire, non ci si possa fermare in superficie, al sentito dire, alle voci di corridoio.
Non apprezzo particolarmente lo stile della maggior parte dei ragazzi dell’Ex-Cuem. Rimprovero loro, costruttivamente si intende, certe scelte che pure, su un piano di coerenza, potrebbero non essere del tutto sbagliate: la mancata partecipazione al bando finalmente indetto per l’assegnazione dei locali della libreria appare come una forzata contrapposizione di fronte ad un tentativo di mediazione (genuino o meno non sono in grado di dirlo) dell’università. Non trovo costruttivo, né comprensibile a tutti questo atteggiamento: se giustificabile, si sarebbe dovuto spiegare, con volantini senza troppi slogan, con conferenze, con video virali. Invece si tende sempre a rinchiudersi nelle proprie certezze, a darsi ragione a vicenda, nella propria cerchia di amici. Con il risultato, poi, di alienarsi qualunque consenso e, dunque, solidarietà e collaborazione dal resto degli studenti, che superficialmente si fermano alla facciata violenta o spacciata per tale.
Eppure, i ragazzi dell’Ex-Cuem hanno dimostrato di saper portare avanti, su base volontaria, un’attività socialmente utile, al netto delle ideologie. Perché hanno dimostrato che, con i locali dell’università concessi agli studenti, senza sostegno da Comunione e Liberazione o altri enti, si può comunque creare qualcosa di buono.
E vergognoso è, a fronte di questi fatti, la distorsione della realtà dal lato opposto, come se i ragazzi dell’Ex Cuem bivaccassero tutti i giorni con la musica alta fuori dalle aule. Almeno, così parrebbe desumersi dalle parole del comunicato del rettore, secondo cui le attività erano “spesso e volutamente arrecanti pesante disturbo alle normali attività dell’Ateneo”. Paradossalmente, le mie lezioni sono state disturbate molto più spesso da cori per neo-laureati o martelli pneumatici nei cortili interni che dalle assemblee di “questa specie di ‘centro sociale’”.
Personalmente, ribadisco, trovo sbagliata la scelta di non partecipare al bando. Ma altrettanto sbagliato è bollare l’intera esperienza come un disturbo all’università: se così è stato è perché l’università stessa, in primis noi studenti non coinvolti nell’occupazione, non è stata in grado di porsi come interlocutore degno per i bisogni che quegli studenti (o non) incarnavano e incarnano.
Nelle discussioni di ieri e di oggi si è resa evidente l’incapacità di argomentazione di una parte e dell’altra. L’assenza assoluta di empatia. Il desiderio di affermazione di sé, più che del dialogo tanto decantato.
Osservare questi atteggiamenti da persone poco più che ventenni mi ha messo addosso un’indicibile tristezza.
Comunque, data la propensione a dilungarmi su temi di questo tipo (già ampiamente dimostrata, peraltro), procedo per punti all’analisi dei fatti di questi giorni, analisi per forza di cose, dal momento che sono umana, parziale e suscettibile di correzioni e critiche.
Non ho mai apprezzato l’appellativo di “sbirri” rivolto alle forze dell’ordine che, in assenza di abusi, reputo degne di rispetto e gratitudine. Urlare “sbirri” ad un gruppo di agenti in tenuta antisommossa è una sbagliata generalizzazione: manganellare dopo quelle parole, però, è un modo piuttosto efficace per confermare l’errore.
Questa mattina, entrata in università, ho notato parecchie scritte sui muri, anticipate da testimonianze dei miei colleghi, scandalizzati dall’imbrattamento di un edificio del XV secolo. È evidente che non debbano essere imbrattati i muri di un edificio pubblico, ma faccio notare che le scritte sono state fatte sui muri bianchi dell’atrio (e dei piani superiori). Ho girato tutti i portici storici alla ricerca di scritte riconducibili a ieri: non ne ho trovate. Non sarebbe stato più edificante criticare l’aver scritto su muri pubblici, invece di cercare un facile sensazionalismo nel puntare falsamente il dito contro il deturpamento di edifici storici e artistici? Per puro dovere di cronaca, tutte le scritte sono state cancellate (in malo modo, con veloci mani di bianco) con inusitata efficienza, prima delle dieci di stamattina.
In ogni caso, quella veloce mano di bianco avrà avuto dei costi, per l’università, denaro che magari si sarebbe potuto destinare a ben altro. Ma, nel contempo, mi chiedo quanto costerà la risistemazione dei locali della libreria, distrutti nello sgombero (e non dagli occupanti), che ora vanta un pavimento non molto diverso dal suolo lunare, quanto a crateri.
Infine, una richiesta, rivolta a qualunque parte: se si pretende onestà dagli altri, bisogna essere essere onesti per primi. Se si pretende che gli altri non si limitino agli slogan, bisogna abbandonarli per primi. Se si pretende legalità, bisogna metterla in atto per primi.
Se così non fate, per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti. E questo non è uno slogan, ma una citazione.