Da Cagliari a Phuket sono 9.400 km in linea d’aria. Un’infinità, ma solo “se rimaniamo incastrati nei nostri blocchi mentali”. Riccardo Mereu (nella foto al centro) la distanza l’ha annullata imparando due lingue e lavorando di mouse e di curriculum. In Italia faceva l’ingegnere, in Thailandia lavora ad alti livelli nel turismo, in un gigante della travel industry che ha in catalogo 50 mila alberghi in 147 paesi. Riccardo è il responsabile area della Thailandia del sud: dirige 4 uffici in 4 città con 29 dipendenti. “In gergo si chiama destination management service – racconta – organizziamo transfer, escursioni, tour guidati per i turisti”. A 36 anni dall’altra parte del mondo per fare “un mestiere che vorrei fare in Italia, ma che lì è impossibile fare”. Meglio la fuga, dunque: “No, sono qui per imparare: tornerò e farò quello che mi piace in Sardegna“.
E’ il 2006. “Mi era scaduto il contratto dopo tre anni, facevo l’ingegnere in un’impresa edile di Cagliari”. La fine di tutto? No, l’inizio. “Lì ho capito che quel mondo mi stava stretto, volevo parlare inglese, francese, spagnolo. Volevo confrontarmi con una realtà diversa”. Prima tappa Cork, in Irlanda, per fare un corso d’inglese. Poi un master in turismo con una internship a Panama. Nel 2009 partono le mail con il curriculum e subito accade qualcosa: “Cercavo un operatore turistico cui servisse una persona che parlasse tre lingue, disposta a trasferirsi in Asia. Dopo due giorni arrivavano già le risposte. Mi scrive anche il general manager svizzero di un’azienda vietnamita: ci scambiamo qualche mail, faccio il colloquio al telefono, un’intervista in spagnolo e mi chiedono una lettera motivazionale. Dopodiché il posto ad Hanoi era mio”.
Sette anni in giro: dopo il Vietnam, l’arrivo a Phuket, ogni tratta aerea un avanzamento di carriera. Lo schema è sempre lo stesso: curriculum via mail, colloquio su skype, biglietto di sola andata. Tra gli italiani e la Thailandia, intanto, un rapporto che comincia a cambiare. “Qui di turisti italiani se ne vedono pochi, così non serve più a nessuno che parli la lingua”. Gli stanziali nell’area non sono molti. “Camerieri e cuochi, ma anche gente arrivata decenni fa che ha aperto pizzerie, che oggi sono vuote. Altri lavorano alla Piaggio in Vietnam, sono tecnici e ingegneri”. Ci sono ancora possibilità? “Architetti e designer sono sempre richiesti, ma bisogna parlare almeno due o tre lingue: se sai l’arabo o il cinese fai ciò che vuoi. Il guaio è che gli italiani non sanno neanche l’inglese”.
Il motore di Riccardo è stata la voglia di rimettersi in gioco. “Bisogna liberarsi dai blocchi mentali. Il contratto a tempo indeterminato non esiste più, almeno nel settore privato. Il modello di società che noi 30enni abbiamo conosciuto non c’è più: il mondo con la famiglia al centro di tutto, garantita da un bel lavoro a tempo indeterminato frutto del benessere degli anni ’60 e ’70, è finito. Il quadro non funziona più? Allora bisogna reagire, spaziare. Se all’estero ci sono delle possibilità, perché non andare a vedere?”. Alla fine devi sempre spiegare il perché a chi resta: “Io sto facendo all’estero un lavoro che vorrei fare in Italia, ma che lì è quasi impossibile fare. Un esempio: se in Sardegna volessi aprire una destination service, non potrei perché c’è un albo cui non posso iscrivermi perché sono un ingegnere”. Poi c’è la burocrazia: “Quando ero a Cagliari, provai a prendere un furgoncino per portare i turisti dall’albergo, con cui avevo un accordo, in spiaggia o all’aeroporto: mi hanno chiesto una fideiussione di migliaia di euro, l’iscrizione all’albo del comune che dà 2 licenze ogni 10 anni, e ancora documenti su documenti. Ti fanno passare la voglia. Poi magari riesci pure a cominciare e allora ti ammazzano di tasse”.
Cosa serve per andare via? Coraggio? “Noi sardi siamo storicamente predisposti alla partenza. Ma partire non significa andare via per sempre. Io non me ne sono mai andato: sono in contatto via web con la mia famiglia e i miei amici, seguo quello che succede in Italia. Tornare? Non sono pronto, e nemmeno l’Italia è pronta”. E’ questione di prospettiva: “In Italia è tutto sbagliato: le industrie chiudono e noi non capiamo che le nostre vere ricchezze sono cultura e turismo. Qui viene gente da ogni parte del mondo per vedere dei Buddha giganti fatti 5 anni fa e dipinti d’oro e noi non andiamo oltreconfine a far pubblicità ai nostri immensi tesori d’arte”. Serve tempo, a tutti: “Voglio fare esperienza e poi tornare in Sardegna per aprire la mia attività, ma continuando a fare una vita di respiro internazionale: i clienti andrò a cercarmeli all’estero. Si può fare, perché dovrei pormi troppi limiti?”.