L’ufficio congiunto Onu per i diritti umani ha annunciato ieri di aver documentato 135 casi di violenza sessuale commessi lo scorso novembre al confine tra Nord e Sud Kivu, nell’est della Repubblica Democratica del Congo (Rdc), durante gli scontri tra esercito regolare e gli uomini dell’M23, gruppo armato che aveva poco prima preso Goma, capoluogo del Nord Kivu.
Autori, gli uomini delle Forze Armate Congolesi. Tra le vittime documentate, 35 ragazze tra i 6 e 17 anni.
Ma non è che gli autori siano “solo” membri dell’esercito regolare, sia chiaro. Nello stesso rapporto, l’Onu ha anche documentato 59 casi di violenza sessuale commessa da membri dell’M23, a cui vanno aggiunte 11 esecuzioni arbitrarie, reclutamento di bambini, lavoro forzato e saccheggio. In breve, gli investigatori chiariscono che sia l’M23 che l’esercito congolese andrebbero processati per crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Ieri è stato anche annunciato che un casco blu è stato ucciso in Sud Kivu da aggressori ignoti. Oggi due uomini sospettati di aver fatto parte dell’imboscata tesa al convoglio della missione di stabilizzazione dell’Onu sono stati arrestati. In un mondo normale queste sarebbero notizie da far rabbrividire.
Se poi si aggiungono le notizie seguenti, tutte tratte dalla cronaca delle ultime 48 ore, ci sarebbe materiale da far uscire di senno chiunque abbia un minimo senso di giustizia:
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Degli operatori asiatici sono accusati di aver esportato illegalmente da gennaio ad oggi 500 tonnellate di legna dalla provincia ricca di minerali del Katanga. Già a marzo Greenpeace aveva pubblicato un rapporto in cui spiegava come l’assenza totale della legge favorisse un continuo sfruttamento illegale delle foreste congolesi, facendo perdere al tesoro dello stato un’importante fonte d’entrate.
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Secondo il primo ministro Congolese, Matata Ponyo, la recente riforma che ha permesso di pagare i salari degli ufficiali pubblici attraverso dei conti correnti bancari ha permesso di risparmiare 5 milioni di dollari e di scoprire l’esistenza di 3.500 finti funzionari.
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Save the Children ha pubblicato un rapporto secondo il quale la RDC è il paese al mondo in cui più donne muoiono di parto o per motivi legati alla gravidanza.
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Human Rights Watch ha scritto una lettera aperta al presidente congolese, Joseph Kabila, pregandolo tra le altre cose di non firmare alcun accordo con capi ribelli accusati di aver commesso esazioni sui civili, di non garantire amnistie e di non fornire appoggio militare ad alcun gruppo armato.
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Il ministro provinciale dell’amministrazione territoriale in Nord Kivu ha dichiarato ieri che ad oggi sono attivi nella sua provincia 27 diversi gruppi armati.
Leggo queste notizie con sdegno, ma in fondo mi pare di non sentire più nulla.
Mi sono assuefatta? Ho forse perso le speranze? E’ venuto per me tempo di partire da questo paese? C’è probabilmente un po’ di vero in ognuna di queste domande, ma quel che più conta è che ogni volta che apro i giornali è un Congo diverso da quello in cui mi sveglio ogni mattina, quello che trovo. Un Congo senza speranza, tragico e cupo. E non mi ci ritrovo, mi sento come disorientata, senza appigli o riferimenti.
Questo paese ha tantissimi problemi, alcuni enormi, altri non poi così diversi dai nostri. E se le violazioni e le ingiustizie devono certo essere raccontate a viva voce, forse andrebbe anche raccontata la normalità. Non solo gli eroi, anche se anche quelli ci sono, tra queste colline verdi, ma la vita semplice di chi ogni giorno sopravvive cocciutamente, quasi facendo dispetto a chi ha reso questa zona del mondo teatro di guerra e distruzione per troppo tempo. Di chi fa un passo avanti per migliorare la propria vita mettendoci tutte le proprie forze, di chi mette al mondo figli, di chi canta per festeggiare una visita inattesa, di chi si aiuta a tirare avanti. La vita di mani callose e di piedi che sembrano mummificati dal tempo e dall’assenza di scarpe, di cieli blu e bambini curiosi, di campi fertili e piogge abbondanti.
Non voglio certo dire che questo sia tutto, o che sia abbastanza, ma certe volte all’ennesimo Vip che passa da queste parti per “portare attenzione al dramma del Congo” vorrei poter chiedere di portare attenzione alla forza della vita dei Congolesi. Per una volta almeno, vorrei che fosse la loro resistenza quasi “sciocca”, senza dubbio sensazionale, ad aprire africana di un giornale.
Perché vivono in guerra, ad alta o bassa tensione, da quasi vent’anni, è vero. Ma vivono con forza, sacrificio ed energia, cercando e trovando soluzioni per se stessi e talvolta per gli altri, e certe volte mi chiedo cosa pensano di sé, a vedersi sempre così miseri sulle pagine di un giornale internazionale.