“Siamo diventati il Paese dove il maschio ha licenza di uccidere” titolano i giornali portando dati sul presunto aumento esponenziale della violenza contro le donne (leggi il blog di Nadia Somma). Ma i numeri sono tutti sbagliati. Per esempio, su Repubblica di domenica 5 maggio c’era una tabella da cui appariva che nel 2005 gli omicidi fossero stati appena 84, contro i 124 del 2012, con un aumento di quasi il 50% (fonte: fondazione David Hume). Un aumento degli omicidi del 50% in 7 anni giustificherebbe il panico, ma non è così. Non uno, ripeto non uno, dei dati citati in questi giorni da giornali e televisione viene da una fonte attendibile come l’Istat o il ministero dell’Interno: per esempio, nella tabella citata si enfatizza il dato di 25 donne uccise nel quadrimestre gennaio-aprile senza rendersi conto che questo corrisponderebbe a una media annuale di appena 75 omicidi, cioè il 40% in meno dell’anno scorso.
Si mescolano disinvoltamente aggressioni e omicidi, stupri e molestie, molestie psicologiche e sfregi con l’acido. Si citano calcoli di dubbia scientificità sulla probabilità che ha una donna di essere stuprata, nell’arco di una vita, cioè fra i 13 e gli 83 anni: un periodo di sette decenni (come se potessimo confrontare l’Italia di oggi a quella del 1943, o a quella del 2083 per intenderci).
I migliori dati disponibili sono ovviamente quelli dell’Istat, che ha i mezzi e la cultura per dare un senso alle cifre e la serie che l’istituto fornisce è inequivocabile: la violenza che sfocia in omicidio da vent’anni è in calo. Nel 1992 c’erano stati in Italia 1.275 omicidi, nel 2010 (ultimo anno disponibile) appena 466, cioè poco più di un terzo. La diminuzione riguarda principalmente gli uomini ma anche le donne: se c’erano state 186 vittime nel 1992, nel 2010 ce ne sono state 131, con un calo del 29,57%.
Ora, potrebbe essere che all’interno di una diminuzione generale degli omicidi, la particolare categoria delle donne uccise da un partner, o da un ex partner, sia in aumento. Questo è possibile ma non abbiamo dati per affermarlo perché occorrerebbe chiarire il rapporto assassino-vittima per tutti i casi censiti. A mia conoscenza questo lavoro non viene fatto dalle fonti ufficiali e l’unica ricerca accademica che ha utilizzato questo approccio è stata fatta da Elisa Giomi dell’Università di Siena e da me, studiando a fondo i dati del 2006. La ricerca è stata accettata da una rivista internazionale di sociologia e comparirà tra qualche settimana. Quello che possiamo anticipare qui è che, nel 2006, furono risolti i casi di 162 omicidi di donne e che, tra questi, 100 erano casi in cui il colpevole era un marito, un fidanzato o un ex.
Nell’ipotesi che il tasso di omicidi da parte di uomini con cui le vittime avevano una relazione sia rimasto costante al 62%, com’era nel 2006, le vittime del 2010 sarebbero state 81. Poiché si parla, nei giornali, di 25 vittime nei primi quattro mesi dell’anno, nel 2013 le donne assassinate da uomini che avevano rifiutato potrebbero diventare 75: siamo di fronte a un fenomeno grosso modo stabile, non a un’emergenza mai vista prima.
Anche un solo cadavere è di troppo, anche una sola vittima è “insopportabile” ma, in un Paese di 60 milioni di abitanti, ci saranno sempre i mafiosi, i violenti, i folli. E’ fondamentale che la violenza venga punita ma creare il panico non serve a nessuno, men che meno alle donne, che a guardare i titoli dei giornali dovrebbero aspettarsi più aggressioni che carezze dai loro partner. Ogni separazione potrebbe essere il preludio a un attacco con l’acido o a un omicidio: non è così. Lo ripeto: gli omicidi di donne sono un fenomeno stabile, tendenzialmente in calo qualsiasi sia l’anno preso come riferimento: oscillano fra i 160 (1998) e i 131 (2010). Non c’è bisogno di inventare cifre balzane e di firmare appelli alla creazione di “task force” ministeriali per sapere che i colpevoli vanno arrestati, perseguiti, condannati severamente. Le leggi ci sono.
Infine, una nota sul linguaggio. Spesso si usa il termine “femminicidio” per chiamare le aggressioni contro le le donne anche quando, fortunatamente, non hanno conseguenze mortali: per esempio uno sfregio con l’acido. Ora, un omicidio è un omicidio, e “lesioni gravissime” sono lesioni gravissime. Dalla tomba non si esce, dall’ospedale sì. Per di più, il “femminicidio” sarebbe un’espressione impropria anche in caso di morte: a imitazione di “genocidio” si crea una nuova parola che crea una nuova realtà: le donne uccise “in quanto donne”, come gli ebrei, sterminati “in quanto ebrei”.
Ma il paragone non regge: gli ebrei Samuel, Israel, Ruth o Esther venivano mandati dai nazisti nelle camere a gas per il solo fatto di essere di religione ebraica, indipendentemente da qualsiasi altra considerazione. Le donne uccise da ex partner non vengono uccise “in quanto esseri umani di sesso femminile” bensì esattamente per la ragione opposta: per essere quella donna che ha rifiutato quell’uomo. Michela Fioretti è stata uccisa dall’ex marito Guglielmo Berettini, che non accettava di essere stato lasciato. Berettini non ha sparato sei colpi di pistola contro la prima donna che ha visto per strada: ha ucciso Michela perché era Michela che l’aveva lasciato. Non c’è bisogno di creare una nuova categoria di reati, di inventarsi nuove pene: per l’omicidio c’è già l’ergastolo. Chiamiamo le cose con il loro nome, puniamo i violenti ma guardiamo in faccia la realtà e non creiamo il panico quando non ce n’è bisogno.
Occorre stare in guardia contro la facile presa di una “bolla informativa” che impaurisce l’opinione pubblica. Agli amici e alle amiche ben intenzionate che si mobilitano su questo tema vorrei dire che la paura è un potente strumento di governo e raramente l’ingigantirla ha portato benefici di sorta ai cittadini. Nel 2006-2007 sembrava che dietro ogni omicidio di una donna ci fosse un extracomunitario, nel 2013 sembra che il colpevole debba essere un marito o un ex: prima di creare task force ministeriali o addirittura nuove leggi guardiamo ai numeri veri del fenomeno.