L'ex segretario Cgil cresciuto all'ombra di Cofferati è sempre stato guardato con diffidenza per le sue origini socialiste. Ma l'assemblea di oggi dovrebbe sancire la sua successione Bersani, almeno per garantire, in un partito sempre più diviso, la transizione fino al congresso di ottobre. Intanto Renzi rischia di essere messo in ombra dal neopremier Letta
Per i più malevoli è come “quando Del Turco prese la reggenza del Psi sancendone lo scioglimento”, per i romanisti “è come richiamare Mazzone sulla panchina giallorossa”, per il grosso è l’ex leader della Cgil che “almeno rappresenta un simbolo delle lotte per il lavoro”. Ma certo Guglielmo Epifani, che si accinge a diventare successore di Pierluigi Bersani alla segreteria del Pd, non suscita l’entusiasmo dei dirigenti del suo stesso partito. E anche lui lo sa, tanto da chiedere pubblicamente “aiuto” per adempiere al ruolo di traghettatore che dichiara di aver accettato “con spirito di servizio”. Perché una cosa è certa, la scelta di Epifani, per quanto fosse la preferita sin dall’inizio di Pierluigi Bersani, oggi più che mai rappresenta il rinvio della resa dei conti interna al Pd al prossimo ottobre, quando si svolgerà il congresso e dovranno venire allo scoperto non solo i giochi di Bersani o i dalemiani, ma anche quelli di Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze, che oggi partecipa all’assemblea del Pd senza prendere la parola, va infatti allargando i propri consensi all’interno del partito, tuttavia non ha deciso come giocare le proprie carte anche a causa del fatto che Enrico Letta, da premier, rischia di contendergli la leadership. Tanto che i suoi stessi fedelissimi cominciano a temere il declino della sua stella, chiamandolo provocatoriamente “l’ex leader”.
Una vita da numero due della Cgil, all’ombra di Sergio Cofferati anche quando ne ha preso il posto nel sindacato di Corso d’Italia per colpa di quel peccato originale socialista, oggi intanto Epifani riesce laddove non era riuscito nemmeno l’Amato Giuliano: sdoganare il Psi presso la burocrazia post comunista. Certo, “forse poi Epifani conta di giocare anche una partita tutta sua”, come osservano negli uffici di largo del Nazareno. Ma che l’ex segretario della Cgil posso mantenere la leadership del partito democratico anche dopo il congresso di ottobre, invece, è una possibilità andata sfumando nel corso degli ultimi giorni.
Probabilmente era con questa intenzione che lo stesso Bersani aveva pensato al presidente della commissione attività produttive della camera come proprio successore. Ma Epifani è tornato a galla per la segreteria solo “dopo un giro completo” in cui tutti gli altri nomi sono stati silurati uno dopo l’altro: Gianni Cuperlo, candidato da D’Alema che rimane il solo davvero in pista per il congresso, ma per questo stesso motivo ha dovuto ripiegare in buon ordine; Roberto Speranza, che sarebbe piaciuto al rottamatore Matteo Renzi in quanto “il meno dannoso”, ma si è chiamato fuori fiutando il rischio di essere mandato al massacro nella gestione precongressuale di un partito balcanizzato; Anna Finocchiaro, altra carta calata da Bersani, ma che rischiava di essere esposta al fuoco dei franchi tiratori renziani e anche della componente ex popolare; Piero Fassino, il sindaco di Torino e ultimo segretario dei Ds, che pure ha fiutato i rischi di rimanere stritolato dal gioco tra i grandi elettori che già ne sancì il declino ai tempi del caso Unipol; Vannino Chiti, ex presidente della regione Toscana e ministro che incrociava renziani e bersaniani ma appariva forse troppo di lungo corso… Epifani, insomma, è tornato in auge per la segreteria come figura di compromesso che deve condurre a un congresso che invece di compromesso forse non sarà.
I convulsi giorni seguiti alla nascita del governo Letta hanno infatti portato in luce le divisioni interne a un partito democratico sempre più simile al territorio dei Balcani che alle originarie case di appartenenza. Soltanto i post diessini, per esempio, sono divisi tra dalemiani, bersaninani, veltroniani, coffertiani, neo renziani. E certo le due pagine di intervista all’Unità di Bersani in cui né il segretario né il giornale hanno fatto cenno alla parola “autocritica” non hanno aiutato la comprensione del tracollo elettorale, alimentando ulteriormente la diaspora della componente post comunista verso Renzi. Ma neanche il sindaco di Firenze può consolarsi con “l’unica vittoria” ci aver lasciato D’Alema fuori dal parlamento, come gliela rinfaccia l’ex premier, che pure da tempo ha cominciato a tesserne le lodi. Anche per Renzi adesso si pone infatti il problema di trovare il modo di giocarsi un ruolo nel Pd. Infatti è quello che gli chiedono i suoi stessi fedelissimi, come il fiorentino Dario Nardella, che si aspettano adesso che il sindaco entri in campo nella partita congressuale, se non di persona almeno appoggiando un candidato: che si tratti di Gianni Cuperlo o del suo sfidante.