Da tempo avverto l’urgenza di parlare di quanto segue per mettere i puntini sulle “i” in merito a certe osservazioni sollevate in relazione a talune posizioni da me assunte (in sintesi: c’è chi mi dice: “tu sei in malafede”, “parli così perché appartieni all’industria della carità”…).
La mia – e ci tengo a premetterlo – non vuole essere né permalosa reazione alle critiche né, tanto meno, ottuso istinto a far quadrato corporativo. Solo vorrei offrire un punto di vista altro presentando il valore, le contraddizioni ma anche i rischi d’involuzione che ci attraversano. Perché, stiamo parlando di welfare,quindi di tutela dei diritti.
Queste critiche, seppure “avversarie” sono salubri, in quanto ci obbligano a tenere alte attenzione e consapevolezza. Snobbarle sarebbe un po’ come ignorare la famiglia del ragazzino accolto in comunità che ti rinfaccia di campare sulle proprie disgrazie. Vorresti contraddirla con forza, ma in fondo c’è anche del vero. Contorto, ma vero.
È un fatto, noi interveniamo dove c’è disagio ed è per questo che va operata una lettura che sappia porre lo sguardo sul tentativo di verificare il permanere delle motivazioni di fondo al lavoro sociale – spirito di servizio e tensione al cambiamento sociale, per esempio – quanto sulle contraddizioni del sistema a tal proposito. E nel fare questa disamina è opportuno partire da un dato di fatto: nel nostro lavoro svolgiamo un compito che riveste un’inequivocabile funzione pubblica.
È assodato che ciò che determina lo svolgimento di una funzione definita pubblica non sta tanto nella connotazione giuridica dell’operatore, quanto invece nelle caratteristiche dell’azione svolta (che poi, sorge subito una questione: com’è possibile rinchiudere l’attuazione di una funzione pubblica, garanzia di diritti sociali riconosciuti ai cittadini, dentro le anguste regole del mercato, senza un reale governo politico dei processi? Ma teniamo le riflessioni per un’altra volta…).
Poi ci si mette anche la crisi, le risorse sono all’osso, la spesa pubblica va contenuta. Ma è da tanto che si va a colpire e a tagliare solo dove è facile farlo, ovvero laddove la catena è debole, istituzionalmente parlando. E nel nostro caso, gli anelli deboli sono gli stessi soggetti che attuano gli interventi (con funzione pubblica) a favore di altri soggetti svantaggiati. Certi altri costi restano intoccabili perché più difficili da aggredire, senza che ci si ponga interrogativi né sui diritti dei cittadini in difficoltà, né su quelli dei lavoratori del sociale, pure colpiti dai tagli medesimi. Con l’aggravante di essere parte di quel precariato invisibile.
Sempre più spesso, ci s’imbatte in situazioni nelle quali gli operatori si trovano in condizioni lavorative peggiori, per precarietà e remunerazione, di quelle in cui versano i destinatari dell’intervento, che quasi sempre marginali lo sono per definizione. Inoltre, in tale situazione si pongono in atto pesanti condizioni di competitività economica in cui emergono grosse strutture, connotate da intendimenti profit, che invadono il mercato (appunto!) in ogni parte del Paese.
Al contempo, sono numerose le esperienze significative, più piccole e radicate nel territorio, che stentano o chiudono. In queste enormi difficoltà diventa necessario per noi tenere alta l’attenzione per conservare il sapore di quel che facciamo. Anni fa, in un opuscolo intitolato appunto “Sul lavoro sociale”, presentavamo alcuni fondamenti dell’intervento sociale (centralità della relazione, con la persona e con la comunità sociale; azione continuata e competente nel territorio; professionalità e formazione continua; il lavoro sociale come esperienza collettiva che diviene organizzazione efficace, funzione pubblica e presidio democratico, per superare la marginalità e la vulnerabilità del lavoro sociale stesso).
Voglio chiudere con un invito ad approfondire – e che rivolgo soprattutto a chi, senza troppi distinguo, butta lì commenti talvolta generici e superficiali – su quel che accade nel Paese. Lo faccio riprendendo una notizia dal titolo Chiusi per crisi diffusa lo scorso marzo dal notiziario del Redattore Sociale.
Se ci lamentiamo noi, qui, nella ancor limitatamente penalizzata Lombardia, immaginate cosa significa operare nel sociale in regioni storicamente e cronicamente più dissestate. Ho in mente dozzine di casi drammatici, e su tutti il grido di agonia che sale dalle “case famiglia” di Napoli: commesse di lavoro sociale svolte e ancora non retribuite dopo 36 mesi! La questione è endemica e per questo che quel grido non può non diventare anche un monito di giustizia e legalità. Esempi per nulla episodici, anzi così diffusi che è impossibile tenere il conto dei progetti sospesi e delle imprese sociali costrette alla chiusura dall’insolvenza pubblica e istituzionale. Eppure, proprio a Napoli, c’è chi come la Cooperativa Sociale Il Grillo Parlante ha lanciato l’adozione “a vicinanza” pur di salvaguardare l’accoglienza dei minori e tutelare i suoi educatori: un appello rivolto ai cittadini per garantire la continuità dell’attività sociale.
Perché, semmai qualcuno lo pensasse ancora, il Welfare non è un lusso. Altro che industria della carità…