Poi quella che pare la leader del gruppo specifica che se tutti questi stranieri tornassero al loro paese vedi che lavoro ce ne sarebbe per tutti. Le altre annuiscono convinte. E poi loro sono dei privilegiati, si dicono l’un l’altra, a loro li aiuta lo Stato, alle persone “normali” no. Secondo me, continua lei, bisogna partire dai “nostri” in un momento di crisi. E’ esplicita: prima non ero razzista, ora lo sono proprio diventata. Vengono qui e ci prendono tutto, a partire dal lavoro.
Mi sono chiesto per tutto il tempo quante domande avrei potuto farle, così su due piedi: se sapeva che i migranti in Italia sono circa il 7% (e non il 25-30% come spesso ha la percezione chi vive di televisione), se sapeva che la differenza tra quanto lo Stato spende per loro e quanto loro versano in termini economici è positiva (circa 1,7 miliardi di euro all’anno), se sapeva che tanti cosiddetti “stranieri” ormai sono cittadini italiani a tutti gli effetti (il ministro Kyenge ad esempio).
Oppure avrei potuto chiederle davvero chi aveva votato alle ultime elezioni (anche se temo di indovinare), e se sapeva che la rovina dell’Italia sono piuttosto i 500 miliardi all’anno che si perdono in corruzione, evasione fiscale, criminalità organizzata. E quelli non sono reati del pover’uomo che arriva stremato da oltre il mare, sono reati molto, troppo italiani, per anni ignorati (quando non coperti o favoriti) da certa politica dell’egoismo, del profitto e dell’incostituzionalità. Una politica, una mentalità, rivotata da troppe persone, che ha coltivato ignoranza, rovina e immobilismo nella società tutta, e che ora sono i giovani dal “futuro nero” i primi a pagare.
In un momento in cui si torna a parlare di ius soli, episodi quotidiani come questo ci insegnano a tenere alta la guardia, dalla parte dei diritti umani ma anche di una politica capace di mettere le persone in condizione di lavorare nella legalità e nella dignità, senza essere abbandonate a loro stesse. A creare le condizioni, anche prima di tutto culturali e civiche, di una “normalità” che non etichetta le persone per la loro provenienza ma per le loro intenzioni, i loro valori, i loro meriti e la loro ricchezza personale e professionale, si impegnano tante realtà piccole e grandi che con poche risorse e molta passione creano spazi, luoghi, persone “interculturali”.
Il Festival Suq, che dal 13 al 24 giugno andrà in scena al Porto Antico di Genova, è uno di questi tentativi, e da quindici anni valorizza l’economia artigianale e gastronomica, l’arte la musica e lo spettacolo, l’editoria e la cultura di popoli da tutto il mondo, a partire dalle comunità residenti a Genova. Nel passeggiare al Suq scompare la percezione di “straniero” per fare posto al fascino e alla curiosità del valore di ciò che è strano o sconosciuto. Quando le persone vivono l’intercultura nel fare la spesa, comprare ai banchi, mangiare al ristorante o guardare uno spettacolo o un concerto, sperimentano una normalità delle differenze che si ripercuote nella convivenza civica a tutti i livelli. Investire in chi crea queste opportunità oggi significa aprire la strada per una migliore economia, welfare e legislazione domani.
Giacomo D’Alessandro