Farsi una canna non è più un reato, almeno nello sport. Lo ha stabilito la Wada (l’agenzia mondiale per l’antidoping) che sabato scorso ha alzato il livello di positività, e quindi di punibilità, per quello che riguarda la presenza di cannabis nelle urine. Si è passati da una soglia massima consentita di 15 nanogrammi di Thc (tetraidrocannabinolo) per millilitro a 150 nanogrammi per millilitro: dieci volte tanto. Quasi una liberalizzazione de facto per una droga ricreativa che qualsiasi studio o rivista medica ha sempre sostenuto non può migliorare in alcun modo le prestazioni sportive, se non come aiuto a rilassarsi per un atleta troppo nervoso. Innalzando l’asticella ai 150 n/g la Wada spiega che potrebbe cancellare oltre l’80% delle positività di cannabis riscontrate ogni anno, che incidono addirittura per poco meno del 10% sulle positività totali degli atleti e sulle squalifiche. E concentrarsi sul doping vero e proprio, risparmiando soldi e dirottandoli nella lotta ad altro tipo di sostanze.

Se è vero che la Wada non ha mai inserito il test per il rilevamento delle droghe ricreative nei controlli a sorpresa degli atleti lontano dalle competizioni, ma solo in quelli ravvicinati prima e dopo le gare, è anche vero che la sostanza rimane diverse settimane nel sangue e nelle urine. E quindi una canna fumata a una festa anche fino a un mese prima di una competizione può essere individuata. Per questo il rischio è che le squalifiche per consumo di cannabis si configurassero come delle vere e proprie sanzioni ‘morali’ e non sportive. Con la nuova soglia a 150 n/g si cerca di evitarlo, anche se utilizzare cartine e filtri la sera prima della gara è ancora punibile. Non una vera e propria liberalizzazione, ma un piccolo passo avanti: dato che la soglia stabilita dalla Wada è comunque più alta della soglia di punibilità in Italia, che si accontenta di 50 n/g.

La cannabis, secondo gli ultimi dati del World Drug Report delle Nazioni Unite è una sostanza consumata dal 2,6/5 % della popolazione mondiale. Nello sport, dove la soglia dei 15 n/g era in vigore dal 1999, sono molti i casi di atleti squalificati per positività al Thc: dal pluricampione olimpico Phelps, sospeso dalla sua federazione dopo che una rivista di gossip pubblicò una foto in cui si faceva un bong (d’inverno, lontano dalle gare) al judoka Delpopolo, primo escluso ai Giochi di Londra 2012. L’ultimo caso in Italia è invece quello del calciatore Cissé dell’AlbinoLeffe: squalificato a gennaio per due mesi, per positività a un metabolita di tetraidrocannabinolo dopo un controllo antidoping al termine della partita con il Pavia.

Ad anticipare la nuova frontiera di tolleranza per l’uso creativo della cannabis nello sport ci ha pensato qualche anno fa la Stella Rossa Belleville, squadra di calcio della periferia parigina nata nel 2010 dalla fusione tra la Dynamo Belleville e Spartak Menilmontant. Sono parte del Cannabis Social Club, una società per la promozione consapevole dell’uso a fini ricreativi e terapeutici della cannabis, che a gennaio ha aperto una filiale anche in Italia: a Racale, provincia di Lecce. Con la musica di Bob Marley (grande calciatore, oltre che musicista) e le canne che girano negli spogliatoi, prima e dopo la partita, quelli della Stella Rossa Belleville giocano per tutta Europa per informare, divertire e divertirsi. Poi in campo perdono sempre: a dimostrazione che, come ha capito anche la Wada, la cannabis tutto è fuorché una sostanza per migliorare le prestazioni sportive.

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