Per il collaboratore che ha permesso di far ritrovare i resti della donna l'accusa ha chiesto 27 anni. In primo grado erano stati inflitti sei ergastoli. Carlo Cosco, in una delle scorse udienze, si è assunto la responsabilità del delitto. La sentenza potrebbe arrivare il 21 maggio
Tre ergastoli, una pena a 27 anni per il collaboratore di giustizia e due assoluzione. Sono le richieste, ai giudici della corte d’Assise d’appello di Milano, per l’omicidio di Lea Garofalo, la testimone di giustizia calabrese uccisa a Milano il 24 novembre 2009 e il cui corpo venne bruciato. In primo grado erano stati inflitti sei ergastoli. Oggi però il sostituto pg Marcello Tatangelo, nel corso della sua lunga requisitoria, ha dovuto riqualificare le responsabilità degli imputati, anche alla luce delle dichiarazioni del pentito Carmine Venturino, che nel luglio scorso, dopo il processo di primo grado, ha iniziato a collaborare facendo anche ritrovare i resti del corpo della donna.
In particolare l’accusa ha chiesto la conferma della condanna all’ergastolo per Carlo Cosco e per suo fratello Vito, che avrebbero ucciso la donna al termine “di un piano criminoso andato avanti per anni”. Chiesta la conferma dell’ergastolo anche per Rosario Curcio, che avrebbe aiutato Venturino a far sparire e bruciare il cadavere. A nessuno dei tre, secondo l’accusa, devono essere concesse le attenuanti generiche. Attenuanti, invece, che il sostituto pg ha chiesto per Venturino. Il magistrato però ha sostenuto che a lui non può essere concessa “l’attenuante speciale che prevede un fortissimo sconto di pena per i collaboratori di giustizia”, anche perché questo, secondo l’accusa, non è un omicidio di ‘ndrangheta. Secondo l’accusa Carlo Cosco, dopo anni di silenzio “ha confessato” nelle scorse udienze “solo per limitare il danno”, ossia per escludere la premeditazione e un “piano omicidiario coltivato per anni” parlando di un “raptus d’impeto”, “nutriva un odio profondo verso di lei che l’aveva abbandonato e soffriva del disonore tipico degli ambienti criminali mafiosi”. Cosco temeva che la donna non le facesse più vedere la figlia Denise, 21 anni, che con le sue dichiarazioni ha dato un impulso forte alle indagini, ha testimonianto ed è parte civile contro il padre. La ragazza non ha accettato le scuse del padre, che si era rivolto a lei in una delle scorse udienze. “Cosco – ha spiegato, infatti, l’avvocato della giovane, intervenendo come parte civile – ci viene a parlare di un fatto d’impeto e poi chiede scusa a una ragazza che oggi sta cercando di rialzarsi”. Il ritrovamento, grazie a un pentito, dei resti del corpo poi, ha concluso il legale, è stato “per Denise un grande regalo”.
L’accusa infine ha chiesto l’assoluzione “per non aver commesso il fatto” per l’altro fratello di Carlo, Giuseppe, e Massimo Sabatino, scagionati nelle dichiarazioni del pentito. “Non sono affatto certo – ha spiegato Tatangelo – che Giuseppe Cosco e Massimo Sabatino siano estranei all’omicidio, ma il dubbio ce l’ho e la mia coscienza di magistrato mi impone di chiedere che siano assolti”.
“Non abbiamo mai contestato l’aggravante mafiosa, malgrado le sollecitazioni della stampa e della parte civile – ha chiarito il pg – perché siamo convinti che in questo omicidio c’è una compresenza di fattori come il dolore di Cosco di essere stato abbandonato, il disonore, l’odio profondo che nutriva per questa donna sin dalla fine degli anni ’90”. Il processo proseguirà giovedì con gli interventi delle parti civili e delle difese e la sentenza potrebbe arrivare il 21 maggio.