La richiesta di condanna del p.m. milanese Ilda Boccassini nel processo Ruby contro Berlusconi per concussione e prostituzione minorile fa discutere per la sua durezza: sei anni oltre la perpetua interdizione dai pubblici uffici. Dunque, di fatto, dal momento del suo passaggio in giudicato, l’ineleggibilità a vita per il capo del Pdl.
Debbo dire che i reati contestati comportano entrambi una sanzione edittale assai dura (dodici anni, nel massimo, per la concussione e tre per l’atto sessuale con minori dietro corresponsione di denaro o altra utilità); ciò comporta quasi automaticamente, in assenza della concessione delle attenuanti generiche, una pena come quella richiesta dall’accusa. Quanto poi al merito del processo la battaglia della difesa si giocherà, per quanto attiene la telefonata di Berlusconi alla Questura, sulla presunta assenza di una vittima dichiarata e sull’assunto che la prassi seguita dai funzionari, al di là dell’incursione telefonica notturna, sia stato perfettamente coerente con le prassi operative; Per quanto concerne gli atti sessuali sulla circostanza che questi non sarebbero, in realtà, mai stati posti in essere (come la giovane Ruby ha dichiarato alla stampa).
In diritto mi limiterei a due considerazioni che fanno intendere l’ampiezza interpretativa delle due norme contestate al Cavaliere: la concussione per induzione consente di condannare anche quando non vi siano comportamenti manifestamente d’imperio o estorsivi da parte del pubblico ufficiale concussore, ma anche solo allusioni, raggiri o accenni verbali a specifiche circostanze che facciano pensare, al destinatario della richiesta, che scegliere un diverso comportamento sarebbe un azzardo (a questo proposito diviene assai delicata la posizione dell’ex premier laddove dichiara in prima persona la circostanza della parentela con Mubarak di Ruby). Quanto al concetto di prostituzione e di atto sessuale va rilevato che per la giurisprudenza oramai consolidata, non solamente non è necessario il compimento dell’atto fisico ma, per integrare l’atto sessuale, non è neppure necessaria la presenza, nel medesimo luogo, dei protagonisti dell’atto stesso, tant’è che la giurisprudenza considera prostituzione anche quella via web. Argomento diverso è la conoscenza, da parte del Cavaliere, dell’età della ragazza marocchina: è un elemento costitutivo del reato di cui all’art. 600 bis II comma (contestato a Berlusconi) e deve dunque essere provato “oltre ogni ragionevole dubbio”.
Mi soffermerei invece a valutare la pena accessoria, quella dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, in quanto ritengo che la disciplina normativa in merito sia affetta da forti dubbi di costituzionalità e rappresenti un modello di Stato oramai sorpassato e non più accettabile. Alcuni considerazioni giuridiche: la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici è regolamentata dall’articolo 19 del codice penale; l’articolo 20 stabilisce che la pena accessoria consegue “di diritto alla condanna”, tant’è che il combinato degli articoli 28 e 29 dispongono che l’interdizione sia perpetua (come per Berlusconi) qualora l’imputato sia condannato all’ergastolo oppure ad una pena non inferiore a tre anni (senza possibilità per il giudice di stabilire una durata diversa). E’ palese la sproporzione tra i due generi di condanna preveduti dalla norma: l’ergastolo è previsto per pochissime ipotesi di reato (si pensi all’omicidio premeditato) mentre la pena non inferiore a tre anni può essere comminata anche per un reato colposo e cioè psicologicamente non voluto.
La sanzione appare ancora più manifestamente incongrua pensando alle sanzioni accessorie che possono essere comminate per gravissimi reati inerenti le professioni (ad esempio gravi bancarotte come la Parmalat): al massimo cinque anni di interdizione. Proprio questa diversità di trattamento sanzionatorio tra uffici pubblici e privati evidenzia come la disciplina sull’interdizione sia il prodotto di una concezione di Stato etico, ideologicamente meritevole di uno “status” superiore rispetto “al privato”, tipica del periodo fascista in cui è stato promulgato il nostro codice penale e che vedeva nello Stato una riproduzione del Leviatano di tradizione hobbesiana e dunque una sorta di “Dio mortale al quale dobbiamo pace e difesa”.
Questa visione totalizzante ed etica dello Stato con la conseguente necessità di condannare l’ “eretico” ad una sorta di ergastolo civile per gli errori commessi pare sinceramente una disciplina normativa da cancellare, anche perché rende la vicenda giudiziaria un sistema di spartiacque nella lotta politica.