Sofia Coppola, se non altro, ha il dono della coerenza: la sua camera martella sempre lì, sulla cultura pop e i suoi derivati, più o meno tossici. Abbandonati Maria Antonietta e lo Chateau Marmont (Somewhere), la regista Usa torna a Cannes (Un Certain Regard) e porta in dote The Bling Ring, ovvero la teen-gang che dall’ottobre 2008 all’agosto 2009 rubò più di 3 milioni di dollari tra abiti, accessori e altro ai ricchi di fama, da Paris Hilton a Orlando Bloom, da Lindsay Lohan a Megan Fox, penetrando nelle loro case dopo aver cercato l’indirizzo su Google. Prima notizia, la sicurezza delle star fa pena: chiavi sotto lo zerbino (Paris Hilton), portefinestre aperte, idem le auto. E la Coppola potrebbe stigmatizzare, ma non lo fa. 

Basato sull’articolo di Vanity Fair The Suspects Wore Louboutins, The Bling Ring è interpretato da Emma Watson (la saga di Harry Potter) e i semi-sconosciuti Israel Broussard, Katie Chang, Claire Julien, Taissa Farmiga e Georgia Rock. “Non ne sapevo un granché di questa storia – dice la regista – ma quando ho letto l’articolo ho pensato che sembrava un film. E tutta la faccenda diceva così tanto della nostra cultura oggi”. Problema, ne è venuto fuori un piccolo film, e se fosse questione di dimensioni e budget poco importerebbe, ma la “piccineria” è palese nelle intenzioni, nelle stesse ambizioni di un lavoro che certifica l’accaduto, fotografa a posteriori l’evento ma senza nulla aggiungere sul come, il perché e il cui prodest. Insomma, sembra una di quelle camere di sicurezza a circuito chiuso qui vanamente piazzate nelle ville dei divi: registra, punto e stop, l’indagine tocca alla polizia, dunque, semmai a noi spettatori. Ma, altro problema, il film difetta di empatia: non ce ne frega molto di quanto accade, sicuramente meno di quel che era lecito aspettarsi, data l’esemplarità della storia. La Coppola, viceversa, si accontenta di un po’ di ironia e un tot di nonsense, null’altro.

Sullo schermo, è shopping criminale: svaligiare le cabine armadio delle celebrities preferite per rubarne insieme l’appartenenza allo showbiz, la capacità di fare tendenza, in breve, lo status divistico. La capobanda Rebecca idolatra Lindsay Lohan, il braccio destro Mark vuole sincerarsi di non essere brutto, le altre vanno a ruota, pavoneggiandosi su Facebook dei loro colpi, fotografandosi beate nei privee, tirando coca quando capita (spesso) e riempiendo tutto il resto di scemenze 2.0. La loro è solitudine social da far rabbrividire, ma è niente in confronto ai loro genitori variamente presenti, uniformemente assenti. Se Nicki (Watson) si ritaglia un futuro da leader, punta alla charity destinazione Africa e, complice la madre, si droga di spiritualità pret-à-porter, le amiche non sono meno orfane di senso esistenziale: tutte wannabe, ma – a parte i lustrini posticci delle celebrità derubate – manca il complemento oggetto.

E manca anche alla Coppola: non incide, non ha stile, nemmeno quello per aderire parossisticamente, ineluttabilmente al suo oggetto, a questi morti di fama. “Los Angeles gioca un ruolo chiave nella cultura americana. E’ quanto vediamo in questo film: un mondo di celebrità e reality tv. Questa storia non sarebbe potuta accadere altrove, perché questi ragazzi vivono attaccati alle star”. Ci basti questo, la Coppola non va oltre, se volete farlo voi, beh, riguardatevi Spring Breakers.

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