L'agile e divertente volume edito da Pendragon racconta Bologna in parole e numeri raccogliendo decine di termini gergali, derivanti dal dialetto bolognese o più semplicemente da una reinterpretazione felsinea di parole italiane
Alberto Menarini si è rivoltato nella tomba, Luigi Lepri non l’ha presa troppo bene. Queste le conseguenze più immediate dell’uscita in libreria del Dizionario Slang – Bologna in parole e numeri del collega del Corriere di Bologna, il senese (“ma dal ’77 a Bologna”) Fernando Pellerano.
Un agile libello edito da Pendragon (11 euro) composto da uno straordinario elenco di termini gergali, derivanti dal dialetto bolognese o più semplicemente da una reinterpretazione felsinea di parole italiane. Dai più conosciuti come rusco, bazza e bona, per arrivare a finezze tutte da riscoprire come bazurlone, tarzanello e delon. Senza dimenticare perle come pirulino, il bagaglio (senza bisogno di andare in stazione), la tomella, e l’accoppiata tirella e sverzura.
Per esempio se qualcuno vi chiedesse se avete portato la “ruola”, cosa pensereste di esservi dimenticati? E ancora se vi dicessero che tal dei tali avesse una gran “buzza”, in che punto guardereste per verificare?
La ricerca di Pellerano è indefessa, curiosa e divertita. Ci sono anche i modi di dire (“allora poi”, “bain bain”) ma anche rimescolamenti da altri dialetti (il balengo), neologismi del terzo millennio (vez, bomber, breso), E vere e proprie azioni inqualificabili già fuori porta Saragozza: come lo slego (modello assolo di strumento musicale) e il temutissimo lopez (colpo proibito tra i due muscoli della coscia).
Non una mera trafila di parole e relativo significato, ma una vera e propria allegoria animata da spiegazioni esilaranti ed esempi che sembrano scenette da bar con personaggini che ricorrono tra una pagina e l’altra: Ugo – quello più tonto di tutti; Marisa – quella più “boldra” e Gino – il più birichino.
Sperando che, per la fretta di arrivare alle ultime pagine, non si finisca a fare uno “scapuzzo”, là dove fioccano numeri e capienze della piazze, lunghezza delle torri e dei percorsi da-a, o addirittura avere uno “scarabaccino” quando si viene a scoprire che a Bologna (con precise piazze, slarghi, vie e prati) ci hanno girato non solo i film di Pupi Avati, ma centinia di altre pelliccole che nemmeno ce ne siamo accorti.
Così se manca l’accezione più pragmatica di “pugnetta” (quella di presina per tegami e padelle dai manici bollenti) il bolognese essenziale per relazionarsi in Piazza Maggiore abbonda, anzi ce n’è “dimondi”.