I temi posti dal prossimo referendum bolognese sui finanziamenti alle scuole private ed il recente dibattito tra Massimo Cacciari e Stefano Rodotà sullo stesso tema, meritano un serio, anche se forse non da tutti condivisibile, approfondimento. Il principio costituzionale è chiaro: l’articolo 33 prevede che le scuole private abbiano tutti i diritti di organizzarsi, senza però chiedere, né tantomeno pretendere, soldi dallo stato.

Così è avvenuto, più o meno fino al 2000, quando il governo di centrosinistra, per far approvare la legge sulla riforma del sistema scolastico, dovette “patteggiare” con i Popolari l’ approvazione della legge di parità scolastica. Attraverso questa norma (la legge 62 del 2000) lo Stato si impegnava a riconoscere la parità, ed i relativi finanziamenti, a tutte quelle scuole che si fossero conformate a determinati principi caratteristici della scuola pubblica, primo tra tutti, l’ accoglienza di alunni senza distinzione di pelle, sesso, religione, casta; e poi libertà di insegnamento.

A tal fine occorre ricordare come il già citato art. 33 della costituzione reciti: “La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”. In realtà, come spesso succede nel nostro Paese, la parità è stata concessa a scuole di ogni ordine e grado senza che vi siano stati, né tantomeno vi siano ora, i necessari controlli.

D’ altra parte non occorre certo cecità ideologica per riscontrare come, in diverse scuole paritarie, vi sia, ad esempio, un numero di alunni non richiedenti l’insegnamento della religione cattolica, notevolmente inferiore a quello della media del territorio; e non parliamo dell’ iscrizione degli alunni stranieri e dei portatori di handicap, lasciato quasi per intero sul groppone della scuola pubblica; e nemmeno poi ci soffermeremo sui criteri di accesso.

C’è invece un’ultima considerazione da fare: basta andare davanti ad una scuola privata, guardare il parco macchine e confrontarlo con quello di una analoga scuola pubblica; basterebbe questo per capire cosa si deve fare. Questo per quanto riguarda i finanziamenti statali, in generale. Ma quello delle scuole dell’infanzia è un altro capitolo che merita un’ apposita riflessione.

In sintesi, si può dire che in Italia, dall’ unità in poi, lo Stato si è occupato direttamente delle scuole elementari, medie e superiori; la scuola materna (così era chiamata) era considerata un mero servizio assistenziale rivolto soprattutto alle famiglie povere e gestito prevalentemente da opere assistenziali ed enti religiosi. Solo nel 1968 (data storica per altri motivi) venne approvata, su pressione del Partito Socialista e con la forte contrarietà della Democrazia Cristiana, una legge (444) che istituiva la scuola materna statale, iniziando così a sottrarre agli enti religiosi l’educazione prescolare; per la verità, fin dall’ inizio degli anni ’60, soprattutto in Emilia, da parte delle giunte rosse erano già state istituite dai Comuni, quali soggetti privati, scuole dell’ infanzia; esse in poco tempo divennero un modello per tutti, anche grazie a pedagogisti come Loris Malaguzzi a Reggio Emilia e Sergio Neri a Modena e Bruno Ciari a Bologna.

Ma ora la fase espansiva è finita ed a molti Comuni non è parso vero, anche di fronte a indiscutibili ristrettezze economiche, dare due soldini alle scuole private e togliersi così il pensiero di aprire nuove sezioni. Questo è accaduto anche a Modena, dove l’assessore, già strenuo difensore della scuola pubblica, oltre a confermare i finanziamenti alle private, ha addirittura promosso la costituzione di una fondazione che gestisca alcune scuole dell’ infanzia che prima erano comunali; insomma una specie di dismissione del patrimonio educativo; ora la parola d’ ordine non è più quella di gestire, ma quella di governare, magari anche chiudendo un’ occhio. Il risparmio nei costi e qualche voto cattolico val bene una messa!

In conclusione, credo che lo stato, in generale, debba pensare a far funzionare bene le proprie scuole (ma questo sarebbe un lungo discorso che merita ben altro approfondimento), quindi senza nessun finanziamento alle scuole private, in particolare dalle elementari in su, dove l’ offerta pubblica è più che sufficiente e qualificata; credo che il buon senso ci indichi però un’ attenuazione del principio per quanto riguarda le scuole dell’ infanzia, un settore in cui lo stato offre ancor oggi una quantità di posti del tutto insufficiente; in questo caso, di fronte ad un chiaro e preciso piano poliennale di soddisfazione di tutte le richieste, non sarebbe scandaloso, in via del tutto temporanea, dare contributi a quelle scuole private che garantiscano certi requisiti debitamente e seriamente controllati. Ma temo, purtroppo, che come spesso accade in Italia, il temporaneo diventi eterno, con buona pace per tutti, salvo i principi costituzionali.

(questo post è di Franco Fondriest)

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