Quando la politica è debole, senza idee e priva di visione di lungo periodo, gli altri poteri dello Stato riempiono il vuoto: talvolta la magistratura, più spesso la Banca d’Italia.
Ormai sarebbe più semplice trasferire la sede del governo da Palazzo Chigi a via Nazionale, invece che continuare a prelevare i dirigenti apicali della Banca d’Italia per metterli su tutte le poltrone chiave della politica economica. L’ultimo caso è di ieri:
il Consiglio dei ministri ha nominato Daniele Franco nuovo Ragioniere generale dello Stato. Franco era fino a ieri il responsabile della ricerca economica e delle relazioni internazionali della Banca d’Italia, uno dei massimi esperti di finanza pubblica, che ha lavorato al processo di integrazione monetaria europea e ha analizzato la politica economica dei governi di questi ultimi anni. Da ragioniere generale dovrà certificare che tutti i provvedimenti del governo abbiano le coperture finanziarie richieste dalla Costituzione e, se necessario, potrà bloccarli, come tante volte ha fatto il suo detestato (da moltissimi politici) predecessore,
Mario Canzio.
La situazione bizzarra è che Franco avrà l’ultima parola su leggi e decreti il cui referente politico sarà, ovviamente, soprattutto il ministro del Tesoro, Fabrizio Saccomanni, che fino a poche settimane fa era il superiore diretto di Franco, in quanto direttore generale della Banca d’Italia. Non solo: il programma del governo Letta si fonda, come ricordato dal premier e dal presidente Giorgio Napolitano, sui documenti elaborati dal comitato di “saggi” riuniti dal Quirinale. Tra questi c’era Salvatore Rossi, attuale direttore generale della Banca d’Italia. Con un minimo di archeologia politica, si può ricordare che il quadro finanziario che tante fatiche ci sta costando (con il pareggio di bilancio anticipato dal 2014 al 2013) ha la sua origine nella lettera della Bce firmata anche dall’allora governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, oggi presidente proprio della Bce, unica istituzione che può difendere l’Italia dalla furia dei mercati in caso di nuovo panico.
Anche la Rai è affidata alla Banca d’Italia, con la presidente Anna Maria Tarantola, già responsabile della vigilanza in via Nazionale. Certo, si sono tutti dimessi, formalmente sono indipendenti, ma all’imprinting e a rapporti pluridecennali non si sfugge, ma questa è la sintesi brutale: il ragioniere di Bankitalia dovrà vistare i provvedimenti del ministro di Bankitalia redatti per raggiungere obiettivi fissati da Bankitalia e dettagliati in un programma che Bankitalia ha contribuito a scrivere. Certe Banche centrali, sosteneva il governatore Bonaldo Stringher nel 1913, “per l’attività che svolgono sono chiamate a risanare e a migliorare l’ambiente economico in cui vivono, allo scopo di agire favorevolmente sui corsi dei cambi e di rimborsare i loro biglietti in specie metalliche”. Affermazioni che restano valide anche ora che la lira non c’è più: come ricorda spesso Draghi, una certa omogeneità economica tra i Paesi dell’euro è la precondizione per una politica monetaria efficace.
È chiaro che se ci fosse una classe politica all’altezza delle sfide o una burocrazia pubblica meno auto-referenziale, forse non ci sarebbe bisogno di ricorrere sempre alla Banca d’Italia, la cui influenza sulla vita pubblica è sempre stata massima nei momenti di fragilità dei partiti. E, con qualche eccezione, i suoi funzionari si sono sempre prestati alle istituzioni (e talvolta alla politica) più per spirito di servizio che per ambizione.
Come ha scritto però il professor Giampiero Cama nel recente La Banca d’Italia (Il Mulino), le funzioni di supplenza “da un lato possono garantire prestigio e potere all’Istituto, dall’altro possono invece avere l’effetto di pregiudicarne l’autonomia e l’autorità”. Chi critica la presenza massiccia di uomini di via Nazionale nelle istituzioni con l’argomentazione che “sono banchieri” sbaglia argomento e pecca di ingenuità. Banca d’Italia non è una banca ma un’autorità che vigila sulle banche e anche, seppur non in modo codificato, sulla politica economica, sui numeri dati dai politici, smaschera le menzogne della propaganda e ricorda le priorità (dalla lotta all’evasione alla disoccupazione giovanile). Ma se i vigilanti vanno al governo, chi vigilerà? Quis custodiet ipsos custodes?
Twitter @stefanofeltri