Ora che anche Carlo Monni se ne è andato, dopo Caterina Bueno e Altamante Logli, siamo davvero orfani noi toscani, veraci o d’adozione. Siamo toscani tristi, oggi. L’anima profonda e secolare della Toscana, che in loro s’incarnava, è sempre più un soffio. Se Caterina aveva raccolto i canti di una millenaria cultura popolare, salvandoli dall’oblio, dal buio in cui le lucciole scomparivano nel trapasso antropologico degli anni sessanta, e se Altamante era il re incontrastato dei genialissimi poeti improvvisatori in ottava rima, Carlo incarnava quello spirito terragno, sanguigno, beffardo, irridente della toscanità più vera, la poesia della terra e del vino, degli alberi e delle donne. Gli alberi erano suoi amici, gli alberi di Monte Morello, sopra Sesto Fiorentino, dove andava a smaltire le sue pantagrueliche mangiate e bevute. Quel Monte Morello da dove veniva il vento che “portava direttamente nel cervello il senso di libertà”: così Carlo raccontava di Cambi Remo, un ciabattino anarchico a cui bastava di fare tre paia di scarpe alla settimana, mica di più. Il resto del tempo serviva per vivere: stare con gli amici, fumare, fare qualche merenduccia. Cambi Remo era il modello di vita – ben prima della decrescita – che il Monni proponeva, e in qualche modo egli stesso incarnava.
Ho avuto la gioia di fare uno spettacolo di canti popolari, prevalentemente attinti al repertorio salvato di Caterina Bueno, in cui Carlo interveniva raccontando storie, come quella di Cambi Remo, o recitando poesie. Il quinto canto della Divina Commedia, per esempio. E lo faceva come da sette secoli prima di lui avevano fatto i contadini toscani che si erano appropriati di quella divina lingua volgare, e se la tramandavano di padre in figlio, di memoria in memoria. Quando portai lo spettacolo all’Istituto De Martino, Ivan Della Mea, che non conosceva il Monni, rimase folgorato. “Recita Dante meglio di Benigni”, scrisse sull’Unità. Intendendo proprio che nel suo recitare, anche storpiando a volte il sacro verbo dell’Alighieri, conservava quella secolare tradizione popolare in modo mirabile. E forse anche per questo Monni è restato ai margini, diversamente da Benigni che si è involato verso successi mondiali. Ma in Televacca, così come nel sublime Berlinguer ti voglio bene, Monni/Bozzone non era certo da meno del giovane Benigni (quello viscerale di allora, non quello evangelico di poi). Peccato che Benigni non si sia più ricordato del suo antico amico, dopo. Ma queste sono altre storie.
E altri grandi poeti toscani erano ridonati dal Monni al suo pubblico. Come Dino Campana (di cui diceva: “Sento Campana simile a me, lo amo, mi identifico in lui anche se io, certo, so scrivere peggio. Spero di non morire in un manicomio come è capitato a lui, ma anch’io ho subito molte vessazioni”), o Cardarelli. Il cui verso “Mi sento come il grillo nell’uragano” era un verso in cui, credo, l’anima del Monni si denudava a fondo. Nel suo spettacolo su Campana, quel verso veniva messo a confronto con l’ungarettiano “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, a tutto vantaggio della potenza cardarelliana. 1-0. Così come, altro che “La morte si sconta vivendo”, ma “La vita io l’ho castigata vivendola”. 2-0.
E l’ha castigata davvero, Carlo, in tutti i sensi.
Come l’hanno castigata prima di lui Caterina e Altamante. Che personalmente vidi l’ultima volta diversi anni fa, era il 2005, quando a Caterina avevano dato il Fiorino d’oro. Li vidi tutti insieme, quella volta, tutti per l’ultima volta. Chi l’avrebbe detto quella sera, quando andammo con Carlo a mangiare e bere in una vecchia trattoria sopra Firenze.
Adesso la sua casa di via dell’Inferno, nel centro storico di Firenze, una piccola casa comprata con i soldi guadagnati tra gli anni settanta e ottanta, è vuota. Guarda il caso, anche l’ultimo spettacolo dantesco di Carlo si chiamava “Monni all’Inferno”. Ma sappiamo che molti teologi ci dicono che l’Inferno, se esiste, è vuoto.
Carlo Monni, adesso, è nel luogo beato di coloro che vivono la vita castigandola, che la trangugiano tutta, fino all’ultimo sorso, ingordi, perseverando nel proprio esser-sete, una sete infinita, come gli esseri carnevaleschi rabelaisiani, quelli che “se la sete non è presente, bevo per la sete futura, prevenendola, capite. Io bevo per la sete avvenire, bevo eternamente”.