Nel Pensiero selvaggio (1962), Claude Levi-Strauss formula questa interessante ipotesi: qualsiasi specie animale acquisisce status simbolico non tanto per la sua fungibilità, per esempio la commestibilità, come sostenevano le teorie antropologiche anteriori, ma soprattutto in relazione alla possibilità di costruzione riflessiva, ossia di pensiero. Gli animali ritrovano la loro migliore giustificazione nel fatto di poter diventare oggetti di riflessione teologica e filosofica. Il bel libro uscito di recente di Stefano Perfetti, Animali pensati, nella filosofia tra medioevo e prima età moderna (ETS, Pisa 2012) chiarisce in maniera esemplare nell’arco temporale preso in considerazione (dall’età tardoantica, attraverso il Medioevo, fino agli inizi dell’età moderna) come filosofi e teologi, rinunciando all’osservazione diretta degli animali, si siano distinti in particolare per le loro concettualizzazioni e manipolazioni simboliche. Quanti fra i filosofi e i teologi avevano avuto una effettiva esperienza vissuta con un qualsiasi animale?

Anche la filosofia contemporanea non è immune da questa tentazione concettualista; prendiamo il caso di uno dei testi maggiori del Novecento, Essere e tempo, di Martin Heidegger. Un’analisi approfondita di questo vizio, per così dire, intellettualistico è offerta dalla raffinata tesi di laurea di un veterinario professionista, Achille D’Onofrio, La vita tra l’umano e l’animale: considerazioni sulla morte, cui ho assistito direttamente come Presidente della commissione di laurea. A mio avviso nella riflessione di Heidegger sugli animali vi è una sostanziale incomprensione che nasce da una carenza di esperienza vissuta. Come si può argomentare – è il caso di Heidegger – che l’essere-per-la-morte connoti solo la dimensione umana e non quella animale? Ossia come si può argomentare che la problematica dell’Essere è tale solo se riferita all’uomo? Ergo tutti gli altri enti, anche quelli preesistenti , ne sarebbero esclusi, solo l’Essere si relazionerebbe alla morte in quanto la sua finalità ultima coinciderebbe con l’essere-per-la-morte.

Nascono proprio da argomentazioni di questo tipo tesi aberranti, per le quali gli animali non conoscerebbero la sofferenza ( tesi sostenute dallo specismo nelle sue varie forme) o addirittura non avrebbero il senso del futuro e, dunque, non percepirebbero la loro fine. Da qui l’aberrazione dei vivisezionisti o di tutti coloro che concepiscono l’assassinio degli animali come strumento primario di sussistenza. Nessuno di coloro che pensa o argomenta in tal modo ha mai avuto esperienze di condivisione nel vissuto con qualsiasi animale. A me è capitato, invece, di vivere 17 anni, due mesi e venti giorni, dai primi di luglio del 1994 fino al 28 settembre del 2011 con le mie due gattine, Carlotta e Camilla. La sorte ha voluto che non fossi presente al momento della loro fine, il 10 gennaio del 2006 per Carlotta e il 28 settembre del 2011 per la mia Camilla, ma ho potuto condividere con loro i momenti iniziali della malattia, quelli della sofferenza, quelli del preannuncio della fine ormai prossima. Non potrò mai dimenticare il bisogno disperato di Carlotta, le sue forme di affettività estrema come il serrare la sua zampetta tra le mie mani per essere meglio protetta. O quando, svegliatomi molto presto, qualche giorno prima della sua fine, vidi Camilla che, allontanatasi dal luogo circoscritto in cui si era rifugiata nell’ultimo mese prima della morte, stava compiendo un’ultima ricognizione di tutti gli angoli della casa che l’aveva ospitata per tutta la sua vita. Probabilmente Heidegger non vide mai quegli sguardi estremi, consapevoli ormai della ormai imminente fine, che io invece non riuscirò mai a dimenticare.

Mi sento molto più vicino allo scrittore giapponese di inizio Novecento, Natsume Soseki. Nel suo romanzo Io sono un gatto – che, come commenta Charles Bonnefoy, inaugura la grande letteratura giapponese all’occidentale– il protagonista è un gatto nero, audace, scettico, creativo e raffinato osservatore filosofeggiante, che narra con ironia lo sconvolgente mutamento epocale del Giappone odierno. Un pretesto letterario che consente a Soseki di mostrare i tratti psicologici caratteristici di questi straordinari animali che hanno molto in comune con l’animale uomo.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Festival di Cannes: fratelli Coen, suonala ancora Llewyn!

next
Articolo Successivo

Cannes 2013 – ‘La grande bellezza’, Sorrentino bigger than life

next