Napolitano, Grasso e tutti gli altri 176 testi. La corte d’Assise di Palermo, che celebrerà il processo sulla trattativa Stato-mafia ha autorizzato la citazione di tutti i testimoni indicati nella lista testi della Procura di Palermo tra i quali il presidente della Repubblica e quello del Senato. Si tratta di un primo vaglio dei giudici per escludere che la testimonianza invocata sia “vietata dalla legge o ridondante”. La prima udienza è fissata per il 27 maggio.

Nel corso del processo i giudici valuteranno poi l’ammissibilità delle deposizioni. I testi citati dai pm sono in tutto 178 e tra i chiamati a deporre ci sono anche l’ex pg della Cassazione Vitaliano Esposito e l’ex capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi.

Qualora la testimonianza di Napolitano fosse ammessa, il capo dello Stato dovrebbe riferire su una lettera che il suo ex consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, stroncato l’anno scorso da un infarto, gli scrisse il 18 giugno. Nella missiva D’Ambrosio annunciava le sue dimissioni dopo la pubblicazione delle intercettazioni delle sue conversazioni con l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, imputato di falsa testimonianza nel processo sulla trattativa. I giudici però, in caso di ammissione, dovranno spostarsi a Roma al Quirinale (oppure pensare a una videoconferenza) perché secondo l’articolo 205 del codice di procedura penale “la testimonianza del Presidente della Repubblica è assunta nella sede in cui egli esercita la funzione di Capo dello Stato”.

Nella missiva a un certo punto compare la frase che interessa ai pm: “Lei sa – scrisse D’Ambrosio a Napolitano – che (il riferimento è a suoi precedenti scritti, ndr) non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e mi fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi di cui ho detto anche ad altri, quasi preso dal timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Parole apparentemente sibilline che si comprendono solo alla luce di quanto D’Ambrosio diceva a Mancino, nelle telefonate, sul periodo relativo alla nomina di Francesco Di Maggio, personaggio chiave nella trattativa secondo i pm, a numero due del Dap. Una vicenda che l’ex consigliere di Napolitano conosceva bene avendola seguita dal ministero della Giustizia e sulla quale aveva mille dubbi. Cosa intendesse con precisione D’Ambrosio non si saprà mai, né i pm potranno chiedere a lui i riscontri della loro ipotesi: che, cioè, Di Maggio fosse stato nominato ad hoc dirigente generale per manovrare dal Dap i fili di una strategia di ammorbidimento dello Stato verso i boss, mossa, questa, che rientrava proprio nel “gioco” della trattativa con la mafia. D’Ambrosio non potrà rispondere, ma da Napolitano coinvolto con quel “lei sa” scritto dal suo ex consigliere, i pm vorrebbero delle spiegazioni.

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