Gli ultimi casi clamorosi portano il nome di Apple e Amazon. Secondo quanto emerso nelle ultime ore, la società di Cupertino, il cui marchio è quello che ha più valore al mondo, avrebbe 102 miliardi di dollari offshore e avrebbe spostato miliardi di dollari di profitti fuori dagli Stati Uniti in filiali, alcune basate in Irlanda, dove ha negoziato un’aliquota inferiore al 2 per cento. Mentre il colosso delle vendite online è finito nei giorni scorsi nel mirino della stampa britannica di fronte all’evidenza delle cifre. L’anno scorso, ha raccontato il quotidiano The Independent, l’azienda aveva dichiarato vendite totali per 4,2 miliardi di sterline ma a fronte di un simile giro d’affari si è trovata a pagare appena 3,1 milioni di tasse. Come a dire meno di un millesimo dell’incasso. Il dato è clamoroso, certo, ma in realtà sorprende solo fino a un certo punto.
Perché Amazon, è noto, svolge le sue attività principali nel Regno Unito ma ha da tempo sede legale in Lussemburgo dove il fisco è notoriamente assai generoso con i contribuenti. Lo schema è collaudato quanto diffuso: basta costruire una rete di holding e controllate varie e il gioco è fatto. I profitti vengono convogliati dove più conviene sottraendo alle agenzie delle entrate nazionali ricavi potenzialmente enormi. E, ovviamente, è tutto perfettamente legale.
Il meccanismo che i media britannici hanno subito bollato come elusione fiscale, fa parte delle strategie di “ottimizzazione tributaria” che garantiscono risparmi miliardari alle corporation. Vale per il Regno Unito ovviamente, ma vale in realtà un po’ per tutto il mondo, dagli Stati Uniti – quest’anno, rilevava recentemente Bloomberg, i colossi Usa Microsoft, Apple e Google dovrebbero mantenere all’estero, ovvero al riparo dal Fisco statunitense, 134,5 miliardi di dollari contro i 60 miliardi circa di due anni prima – all’Europa. E l’Italia non fa eccezione come dimostrano sia il lungo elenco di holding e controllate riconducibili a gruppi italiani ma sparse per Paesi a regimi fiscali più appetibili, sia i casi finiti nel mirino del Fisco di Dolce & Gabbana, Marzotto e Bulgari.
Il tema è di scottante attualità in tempi di crisi nei quali la parola “elusione fiscale” accanto all’evasione è sulla bocca di tutti. Di recente per esempio, il segretario generale Ocse Angel Gurría ha definito l’elusione fiscale “un grande rischio per i ricavi, per la sovranità fiscale e la giustizia tributaria”. Un’affermazione forte che ha riacceso il dibattito inducendo qualcuno a fare due conti. Nel corso del 2012, ha segnalato il Financial Times elaborando i dati forniti ad aprile dall’Ocse, Olanda e Lussemburgo hanno attratto investimenti esteri diretti per 5,8 migliaia di miliardi di dollari, più di quanti ne abbiano raccolti nel loro complesso Stati Uniti, Germania e Regno Unito, rispettivamente prima, quinta e ottava economia del mondo.
Eppure i loro sistemi economici non ne hanno beneficiato più di tanto. Nell’ultimo anno la sola Olanda ha raccolto investimenti esteri per 3.500 miliardi di dollari ma nella sua economia “reale”, ha sottolineato il quotidiano britannico, è finito meno di un sesto della cifra (573 miliardi) visto che la quota di maggioranza è defluita nelle cosiddette “special purpose entities”, in pratica l’universo di holding creato allo scopo di aggirare il fisco. Ancor più clamoroso il caso del Lussemburgo: quasi 2.300 miliardi di investimenti piovuti dal cielo di cui poco più di 120 drenati dal suo sistema produttivo. Una resa del 5 per cento.
Tornando ai bilanci di casa nostra, l’attrazione per gli ambienti fiscali favorevoli riguarda anche il gruppo Fiat. Nello scorso mese di novembre, la casa torinese ha concluso i termini dell’accordo per la fusione del gruppo Industrial con una sua controllata dei Paesi Bassi, la Cnh, che prevede la nascita di una nuova creatura di diritto olandese, una holding denominata Fi Cbm che secondo gli ultimi documenti depositati dal Lingotto punta a chiedere la sede fiscale in Gran Bretagna. Anche se “non c’è garanzia sulla decisione finale relativa alla sua domiciliazione fiscale: se Fi Cbm dovesse essere trattata come un soggetto fiscale residente in Italia, pagherebbe le tasse in Italia sul suo reddito mondiale complessivo e sarebbe soggetta ad altri oneri e/o obblighi di reporting, che potrebbero portare costi addizionali”, sottolinea la società nel prospetto depositato alla Consob americana per richeidere la quotazione a Wall Street. Se invece dovessere essere accettata la richiesta di Torino, l’Italia direbbe addio alle tasse sui profitti generati dal gruppo che tra gli altri controlla Iveco e che nel 2012 ha pagato 564 milioni di imposte.
Ha collaborato Mauro Meggiolaro