Mohammed, il ragazzino di 12 anni, schiacciato a terra in preda al terrore, secondo l’inchiesta interna israeliana, non sarebbe infatti morto al termine della sparatoria, come il servizio avrebbe lasciato intendere, bensì dopo. Una differenza dirimente per Netanyahu e il neo governo sempre più vicino alle posizioni dei coloni e favorevole all’espansione delle colonie in Cisgiordania, come ha appena ribadito in un’intervista al New York Times, il ministro più influente, l’ex star televisiva, Yair Lapid.
Nonostante siano ormai passati 13 anni dalla seconda Intifada e dalla giornata più tragica della vita di Jamal al Dura e di suo figlio Mohammed, allora dodicenne, la disputa intorno alla dinamica di quell’episodio non si è mai sopita. Perché le immagini di quel ragazzino intrappolato e quindi morto a causa della follia degli adulti e di un conflitto perenne e crudele, rappresentò un trauma mediatico per le autorità israeliane. Che dovettero fare i conti con la reazione critica non solo internazionale, ma anche della stampa e dell’opinione pubblica interna. Oggi, il governo israeliano sostiene che al termine dello scambio di proiettili tra soldati israeliani e miliziani palestinesi era ancora in vita.
In una prima reazione, Enderlin – che tuttora lavora per France 2 – ha ribadito che non ha niente da correggere rispetto al servizio. Si è anche “meravigliato che il governo israeliano, nella sua inchiesta unilaterale” – ha scritto sul sito di Geopolis, la trasmissione di geopolitica dell’emittente – non abbia interpellato né lui né Jamal al Dura che, a quanto gli risulta, è disposto a riesumare la salma del figlio.
La nuova indagine è stata ordinata da Netanyahu l’anno scorso, nella convinzione che la vicenda di al Dura abbia messo radici nel mondo arabo come “accusa infamante” verso Israele e che debba dunque essere sradicata. Nel rapporto – firmato da Moshe Yaalon, attuale ministro della Difesa – si accusa Enderlin per aver dedotto, nel suo servizio, che Muhammed era morto e che Jamal era rimasto ferito in modo grave.
Il cameraman aveva filmato in quella occasione per diversi minuti, ma il servizio durava poco meno di un minuto. Dall’esame del materiale di scarto, mai trasmesso, Israele ha stabilito che il bambino non era morto. France 2 ha risposto facendo peraltro notare che “coincidenza, questo rapporto israeliano viene pubblicato proprio a tre giorni dalla sentenza d’appello del processo per diffamazione”. Nel 2008, il proprietario di un sito web sul mondo dei media, aveva accusato il canale francese di “aver fabbricato il reportage”. France 2 ha fatto ricorso contro la decisione dei magistrati che lo avevano assolto. E ora teme che il rapporto influenzi il giudizio della corte d’appello.
Il Fatto Quotidiano, 21 Maggio 2013