Lo ha deciso il presidente della Corte d’assise, Alfredo Montalto, che ha anche stabilito che comunque l’audizione del capo dello Stato su altri temi del processo può considerarsi “legittima”. Le conversazioni intercettate sono state già distrutte per disposizione della Corte costituzionale
Giorgio Napolitano, non sarà chiamato a deporre sulle sue telefonate con Nicola Mancino intercettate nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Lo ha deciso il presidente della corte d’Assise di Palermo, Alfredo Montalto, che ha anche stabilito che comunque l’audizione di Napolitano su altri temi del processo può considerarsi “legittima”. Le conversazioni intercettate sono state già distrutte per disposizione della Corte costituzionale che aveva accolto il ricorso del capo dello Stato sul conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo.
La testimonianza di Napolitano era stata chiesta da due parti civili: Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso nella strage di via D’Amelio, e Sonia Alfano, presidente dell’associazione familiari vittime di mafia.Il nome del presidente della Repubblica era stato inserito anche nella lista di 178 testi presentata dalla Procura e i giudici ieri hanno autorizzato la citazione del capo dello Stato.
La Procura di Palermo ha citato il presidente “riferire in ordine alle preoccupazioni espresse dal suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio”. In una lettera del 18 giugno 2012 D’Ambrosio esprimeva il timore di essere diventato uno scudo per “indicibili accordi”. Il presidente della Corte d’assise ha ammesso la lista considerando “legittima” la richiesta dei pm di citazione del capo dello Stato che comunque non è stata ancora fissata. Nella missiva D’Ambrosio annunciava le sue dimissioni dopo la pubblicazione delle intercettazioni delle sue conversazioni con l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, imputato di falsa testimonianza nel processo sulla trattativa.
Nella lettera un certo punto compare la frase che interessa ai pm: “Lei sa – scrisse D’Ambrosio a Napolitano – che (il riferimento è a suoi precedenti scritti, ndr) non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e mi fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi di cui ho detto anche ad altri, quasi preso dal timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Parole apparentemente sibilline che si comprendono solo alla luce di quanto D’Ambrosio diceva a Mancino, nelle telefonate, sul periodo relativo alla nomina di Francesco Di Maggio, personaggio chiave nella trattativa secondo i pm, a numero due del Dap. Una vicenda che l’ex consigliere di Napolitano conosceva bene avendola seguita dal ministero della Giustizia. Cosa intendesse con precisione D’Ambrosio non si saprà mai, né i pm potranno chiedere a lui i riscontri della loro ipotesi: che, cioè, Di Maggio fosse stato nominato ad hoc dirigente generale per manovrare dal Dap i fili di una strategia di ammorbidimento dello Stato verso i boss, mossa, questa, che rientrava proprio nel “gioco” della trattativa con la mafia. D’Ambrosio non potrà rispondere, ma da Napolitano coinvolto con quel “lei sa” scritto dal suo ex consigliere, i pm vorrebbero delle spiegazioni.
I giudici però, per sentire Napolitano, dovranno spostarsi a Roma al Quirinale (oppure pensare a una videoconferenza) perché secondo l’articolo 205 del codice di procedura penale “la testimonianza del Presidente della Repubblica è assunta nella sede in cui egli esercita la funzione di Capo dello Stato”. Negli ambienti del Quirinale questa mattina si sottolineava che il presidente della Repubblica rimaneva in attesa, nella più assoluta serenità, delle decisioni della Corte d’Assise di Palermo in ordine alla richiesta avanzata dalla Procura di ascoltarlo come testimone.